Aveva le mani d’oro colui che possedeva una speciale perizia artigianale, che generalmente trasmetteva a dei discendenti. E’ un’espressione antica nella nostra lingua, come i mestieri che si esercitavano: professionalità oggi quasi scomparse, delle quali per fortuna troviamo ancora rivalutazioni e rinascite. Dallo stesso principio si sviluppa Aveva le mani d’oro, un progetto culturale e d’arte schiettamente italiano, senza confini tra Nord e Sud.
Nasce e si concretizza attraverso incontri fortunati e dagli esiti illuminanti nel proporre un modello virtuoso di collaborazione, tra diversi attori del mondo della cultura e del sistema dell’arte contemporanea con imprese del territorio.
Se la scintilla è stata la comunione tra ricerche, il fuoco è stato tenuto in vita da diverse anime: l’artista Pino Deodato e Sabina Melesi dell’omonima galleria di Lecco, il giornalista Prashanth Cattaneo ed Emilio Leo, erede di Peppino del Lanificio Leo di Soveria Mannelli, in provincia di Catanzaro. Cito questi protagonisti tutti insieme, non in ordine d’importanza: senza soltanto uno di loro quello che sto per raccontare non sarebbe potuto venire alla luce.
Aveva le mani d’oro ha condotto alla realizzazione di un copricuscino per arredare l’area living della casa che riproduce il disegno di Deodato. Il suo ricorrente omino blu somiglia a Peppino Leo, nella gestualità. Accompagnano il manufatto: un libro per approfondire l’avventura e i suoi agitatori culturali, una mostra a Lecco e una al lanificio. Per comunicare al mondo i suoi esiti, i suoi preziosi contenuti, del progetto si è parlato inoltre in occasione di Sciabaca Festival in settembre.
Un risultato è anche questo mio piccolo contributo alla sua divulgazione, con il desiderio che si sappia che l’Italia non è ancora diventato un paese per stolti, che c’è chi si rimbocca le maniche senza distinzione tra attività produttive, design, arte e studio dei loro processi, con consapevolezza e sensibilità.
Tra i protégées di Sabina Melesi c’è Pino Deodato, con il suo delicato lavoro.
La gallerista, che investe su artisti viventi scegliendoli in base alla passione verso la poetica che li guida, ha visto l’evoluzione della ricerca di Deodato dal 2013. Dapprima più pittorico e con un uso di colori più forti, si è portato negli anni verso opere oggi inconfondibili. Spesso come racchiuse in una piccola stanza, le sue figure in terracotta vivono in un mondo sognante, assorte nella gestualità di un tempo sospeso, infinito.
Le ho chiesto di narrarmi la genesi del progetto e di aprire il cuore ai nostri lettori circa il valore di un coinvolgimento intrecciato di creatività. Durante un’emozionante conversazione mi rivela come tutto sia iniziato nel 2020, generato da un susseguirsi di situazioni fortuite. “Deodato è un cantastorie, ed era l’artista giusto da invitare all’Agorà del Mediterraneo presso la Torre Viscontea di Lecco. La manifestazione organizzata dall’associazione COE, che vede Prashanth Cattaneo socio e promotore di iniziative culturali, non si fece a causa della pandemia, ma riuscimmo ad inaugurare la mostra nel 2021.
Pino non fa mai una cosa che sia fine a sé stessa, deve esserci un profondo sentire dietro a qualunque creazione e a proposito di Mediterraneo diceva che per lui fare il bagno nel mare della Calabria, sua terra d’origine, era come immergersi in un camposanto. Con la stessa partecipazione intima e con il suo peculiare messaggio gentile ha affrontato il tema del Padre per Aveva le mani d’oro”.
Ancor prima Prashanth Cattaneo, come giornalista da sempre interessato al design dal punto di vista sociologico, aveva conosciuto a Milano Emilio Salvatore Leo.
Ha caldeggiato alla gallerista una visita al Lanificio Leo, suggerita a sua volta a Deodato, senza ancora l’idea di un progetto. A Soveria Deodato vede dal tablet di Emilio Leo un video sul padre Peppino: è subito colpito dal movimento delle mani, dall’amore dell’artigiano per il lavoro di una vita. Quasi centenario ricordava alla perfezione le azioni che si svolgono per la filatura e la tessitura della lana.
Leggo dalle parole di Emilio, fissate nella pubblicazione a cura di Cattaneo, che quei movimenti senza materiale, appartengono al rito che permane come “metafora di un passaggio di testimone”, di un mestiere che può perpetuarsi con le nuove generazioni rinnovando una memoria condivisa. “Non tanto perché tramandata nelle competenze tecniche ma nel significato che precede le azioni e quindi orienta i processi”.
Da questa magia avvolgente di questi molteplici incontri, insieme si decide di realizzare un cuscino in maglieria jacquard di grandi dimensioni, “che ti avvolge come l’abbraccio di un padre”, e la speciale pubblicazione Aveva le mani d’oro.
La casa editrice e industria tipografica è Rubbettino, la più grande del Sud Italia, con sede a Soveria Mannelli come l’opificio. Nel gesto del padre si fonda Aveva le mani d’oro. Per questo la prima presentazione dell’intero progetto di Aveva Le mani d’oro ha inaugurato presso la galleria lecchese proprio il 19 marzo di quest’anno, Festa del Papà.
Attraverso le mani la storia di Peppino entra a far parte della storia di Pino.
Quella gestualità ancora viva nel coraggio del figlio di portare avanti l’azienda con professionalità e riconoscenza appartiene anche all’artista che ricorda il tempo trascorso nella bottega del padre calzolaio. Ma le relazioni generative a cascata di Aveva le mani d’oro mi portano verso l’ulteriore considerazione di come Deodato stesso possa rivelarsi padre paradigmatico. Lo è nel suggerire che ogni visione d’arte, dal concepimento al risultato, avviene unificando pensiero e azione manuale.
Un concetto si materializza nell’opera fatta di gesti, in qualsiasi opera. Che siano poderose pennellate o leggeri tocchi, nella decisa o tenue scelta cromatica, anche il lavoro meno impegnato disciplinarmente o che affida al caso la sua poetica, l’atto creativo ha il potere di scoperchiare mondi lontani. In quello di Deodato è un’emozione dolcemente evocativa a trasformarsi in arte, che si scioglie mediante finestre autobiografiche.
Nella ricerca di Deodato le tematiche sono affrontate attraverso il personaggio che le impersonifica, il quale riflette l’identità e la visione dell’artista stesso.
In fondo tutti i suoi uomini sono sempre uno. Più spesso rimandano ad esperienze personali, come in un interessante lavoro sul trasloco o in altri che rivelano la sua ossessione per i libri. In particolare ricorre una narrazione affidata all’artigianalità, nella quale le mani non sono sempre quelle rappresentate. La loro memoria sopravvive ad esempio nelle dure stoffe intessute un tempo dalle signore di casa, destinate alla raccolta del grano. Utilizzate come supporto pittorico per una mostra alla Galleria Melesi e alla Fondazione Pomodoro, possiamo intenderle come elemento simbolico, significante correlato al tema del Pane.
L’omaggio alla figura del padre di Emilio, è però anche un ideale universale.
Lo dimostra l’esposizione allestita al Lanificio Leo che esponeva una selezione di opere dedicata alla figura del pastore. In questo caso si riferisce ad una figura ancestrale quasi mitica, colui che custodisce un’origine e una tradizione per il “mestiere” dei Leo. Insieme alla creazione del disegno per il copricuscino, accompagnato al volumetto denso di contenuti, l’operazione multidisciplinare non resta fine a sè stessa perché muove alla riflessione più universale sul senso dell’eredità, famigliare e della collettività. Collima col valore culturale e pedagogico del il concetto di heritage di cui si parla nelle prime pagine di Aveva Le mani d’oro.
Cattaneo ricorda Il romanzo Il mistero delle meraviglie di Carlo Cuppini, che immagina un terribile risveglio in una Firenze privata dei suoi monumenti.
E’ sul patrimonio materiale, e immateriale, che si fonda Aveva le mani d’oro, senza il quale il mondo sarebbe spiritualmente nudo. L’attuale proprietario e direttore creativo del Lanificio Leo riceve in prima persona un imprinting al sacrificio e all’operosità da Peppino, ma si trova in un contesto differente da quello del passato.
L’eredità paterna è un prezioso punto di partenza. Se il Lanificio Leo è esplorato in quanto “luogo antropologico, dove le persone sono protagoniste della storia e dei processi produttivi”, l’arte del presente può mantenere in vita quel passaggio di testimone innovandosi, trovando nuove strategie, allargando il suo campo d’azione a nuovi linguaggi. Per arrivare al futuro indossando l’eredità del passato. E’ ciò che sta facendo Emilio, a cui auguro una crescita nella continuazione delle generazioni.
Michela Ongaretti
Per chi fosse interessato ricordo che presso la galleria lecchese si trovano alcuni esemplari del manufatto tessile, insiema alla pubblicazione Aveva le mani d’oro. Ulteriori informazioni al link http://www.galleriamelesi.com
Per conoscere le iniziative di Sciabaca Festival https://www.sciabaca.it/