Biennale Architettura di Venezia. Prestigiosa finestra sul mondo, quest’anno ha aperto i suoi battenti all’insegna del cambiamento, o meglio con l’obiettivo di volere contribuire in maniera significativa in questa direzione, proiettandosi verso un ideale futuro.
Arricchita da eventi collaterali e per la prima volta anche da un programma didattico, le partecipazioni che conta sono in totale 89, ripartite tra le sedi dei Giardini e dell’Arsenale, di uguale importanza e complementari fra loro. L’Italia è presente in Arsenale, presso le Tese delle Vergini.
The Laboratory of the Future, questo il titolo assegnato, non ha sicuramente un’impronta didattica e rigida.
Non è neanche la fiera delle vanità, l’esibizione di esercizi stilistici e compositivi o di nuove tecnologie costruttive. E’ invece una mostra politica, impegnata, di denuncia e rivendicazione, che invita a iniziare a cambiare prospettiva e a prendere posizione. Più etica e meno estetica, verrebbe da dire. Questo l’indirizzo curatoriale voluto da Lesley Lokko, architetto, scrittrice e attivista africana. Una figura simbolica innanzitutto.
L’edizione attuale nasce in continuità con l’impostazione dell’ultima Biennale Architettura. In un’epoca di divisioni politiche e disuguaglianze economiche crescenti, si punta alla ridefinizione dell’assetto disciplinare dell’architettura contemporanea, e alla riconsiderazione del ruolo dell’architetto. Un ruolo sempre più complesso, soprattutto anche alla luce delle cattive condizioni in cui versa il nostro pianeta, e dell’urgenza di fare cambiamenti radicali.
Uscire dai confini per lavorare insieme e sullo stesso piano per ripristinare gli equilibri.
Anche la nomina di Lesley Lokko quale curatrice della 18° Mostra Internazionale di Architettura, ha spiegato il presidente in carica Roberto Cicutto, è dipesa dalla volontà di rimanere in linea con l’impostazione precedente firmata da Hashim Sarkis. L’intento è di dare la parola a chi proviene dall’esterno del mondo nord-occidentale, e soprattutto più in sintonia con la situazione internazionale. “Lesley Lokko parte dal suo continente di origine, per raccontarne tutte le criticità storiche, economiche, climatiche e politiche che oggi stiamo sperimentando a livello globale. Confrontiamoci per capire dove si è sbagliato finora, e come vada affrontato il futuro. È un punto di partenza che invoca l’ascolto di fasce di umanità lasciate fuori dal dibattito”.
Si è quindi per la prima volta deciso di dare ampio spazio a progettisti africani all’interno della Biennale Architettura, mostrandone la produzione e provando così ad allontanarci dall’immagine stereotipata di un continente, al contempo vicino e lontano, solo oggetto di problematiche e assistenza continui.
“Qui in Europa parliamo tanto di minoranze e diversità, ma la verità è che le minoranze dell’Occidente sono la maggioranza globale; la diversità è la nostra norma. C’è un luogo in cui tutte le questioni di equità, risorse, razza, speranza e paura convergono e si fondono: l’Africa. Credo che il vero laboratorio del futuro sia proprio questo. Siamo il continente più giovane al mondo e a maggiore tasso di urbanizzazione, troppo spesso non pianificata e a spese dell’ambiente e degli ecosistemi”, dichiara la curatrice. È in questo contesto che le mostre hanno un peso particolare: sono un momento unico in cui arricchire, cambiare o raccontare una nuova storia.
La Biennale guidata da Lesley Lokko, promuovendo in generale un modello di progettazione più sostenibile, è pensata allora come impegno collettivo inteso a ipotizzare il futuro e a essere tutti “agenti del cambiamento”. Queste le iniziali dichiarazioni ufficiali e i chiari intenti programmatici.
Al cuore di ogni progetto c’è lo strumento principe e decisivo: l’immaginazione, continua Lokko. “È impossibile costruire un mondo migliore se prima non lo si immagina e gli architetti sono storicamente attori chiave nel tradurre le immagini in realtà”.
Adottando un simile approccio, il tema è declinato nella sua ampiezza in modo trasversale e assume forme espressive differenti: sostegno alle giovani leve e alle minoranze, pari opportunità, cambiamento climatico e sostenibilità, giustizia razziale ed equità di genere, geopolitica e comunità, diritto alla salute e alla terra.
In una Biennale di Architettura, dove tutto è moltiplicato e amplificato, ogni singolo allestimento diventa una mostra a se stante.
Se non c’è però una regia superiore, se la direzione artistica è insufficiente o troppo libera (anche se probabilmente in questo caso non ritenuta necessaria), l’idea di base si perde e il messaggio risulta meno efficace. Se manca un denominatore comune, anche la mostra stessa perde forza. La rappresentazione del cambiamento avrebbe dovuto rimanere nell’ambito dell’architettura, per quanto anche politico e generazionale.
Inoltre, la sensazione è che questo “cambiamento” si sia fermato alla fase analitica, e questo vale nel complesso. Il Laboratorio del Futuro è pieno di studi, indagini sul campo e ricerche (scientifiche, ecologiche, antropologiche, sociali, politiche, ecc.), di azioni riparatorie, di manifesti ideologici, di inviti a riflettere e di esortazioni alla presa di coscienza. Ma senza fornire indicazioni, accennare a soluzioni e applicazioni pratiche, si rischia di cadere nella banalità o nella semplificazione eccessiva.
“Un’esposizione di architettura è contemporaneamente un momento e un processo. Attinge la sua struttura e il suo formato dalle mostre d’arte, ma differisce dall’arte per aspetti cruciali che spesso passano inosservati”.
E’ vero, ma per cominciare a essere “agenti del cambiamento”, forse si sarebbe dovuto parlare di esperienze tangibili. Nella maggioranza dei casi infatti, l’attenzione è quasi tutta rivolta alla scenografia e alla comunicazione. Gli allestimenti (o meglio le installazioni), per quanto diversi e creativi, giocano spesso con la multimedialità. Audio e video si inseriscono tra oggetti, complementi d’arredo, sculture, abiti, tessuti, materiali di scarto e quant’altro. E questo impiego massiccio della tecnologia stride con il principio di sostenibilità, riequilibrio ambientale e sensibilità ecologica.
E’ significativo notare che i temi considerati, per quanto importanti e imprescindibili, non riguardano direttamente l’architettura, salvo pochissime eccezioni. Questa Biennale Architettura è priva di ingegno sperimentale, progetti, schizzi, disegni, plastici, in una parola l’architettura non c’è. E quando c’è, utilizza e combina i linguaggi tipici dell’arte, tra materialità e decorativismo sovrabbondante.
Tra presupposti, aspettative e disillusioni, un’inversione di tendenza ancora non si è vista.
Sicuramente un cambiamento però c’è stato. Per mezzo di una ridistribuzione di pesi e opportunità più equa; dell’adozione di misure finalizzate al raggiungimento della neutralità carbonica in termini di concezione, produzione, svolgimento e dismissione della Mostra stessa; e di una campagna di sensibilizzazione del pubblico più integrata e pervasiva.
L’auspicio è che questa Biennale, priva di reali contributi legati alla determinazione, alla funzione e alla comunicazione dell’architettura oggi, abbia almeno portato a due cose: a una maggiore consapevolezza circa la gravità dei problemi relativi a sostenibilità e pianificazione controllata, e agli obblighi e alla responsabilità che abbiamo come società civile.
Il Padiglione Italia: Spaziale. Ognuno appartiene a tutti gli altri.
A curare la partecipazione dell’Italia è Fosbury Architecture, responsabile del coordinamento di nove progetti distribuiti lungo tutto il territorio nazionale e sviluppati da altrettanti gruppi di progettisti. Non hanno una finalità autoreferenziale, ma di recupero di strutture già esistenti. Sono operazioni già avviate, e portati avanti in contesti non facili. Non c’è un solo protagonista e Fosbury Architecture, non si pone come curatore-autore, ma come mediatore di “agenti del cambiamento” a scala locale.
Cresciuti in una realtà costantemente in crisi (da quella economica ed energetica, a quella ambientale, pandemica e bellica) infatti, questi giovani professionisti per primi ne subiscono le conseguenze. Per questo sono consapevoli del fatto che ogni crisi abbia avuto “ripercussioni spaziali”, e che l’era dell’esuberanza architettonica sia finita. Attraverso questa esperienza collettiva, hanno concepito e realizzato qualcosa che andasse oltre la durata semestrale della manifestazione, tradotto in un investimento a lungo termine.
Calati all’interno di un sistema di scarsità di opportunità e risorse, e sapendo di poter operare solo in termini di sostenibilità, la ricerca elaborata da queste giovani leve si è concentrata sulla revisione dei codici di intervento della disciplina (architettonica) e dei rapporti tra gli addetti ai lavori, i vari enti di riferimento, e il territorio. In questo senso quindi, a emergere sono la disorganicità e le problematiche del nostro Paese. Presentate in modo unitario ma puntuale, queste nove installazioni site-specific rappresentano la sintesi formale e concettuale delle attività di analisi svolte e dei provvedimenti presi a livello progettuale.
Lo spazio è suggestivo, risultando sovradimensionato o non sfruttato, anche se volutamente. Predominano il buio e un’illuminazione puntuale, come si usa fare per enfatizzare le opere d’arte in uno spazio monodimensionale senza barriere visive verticali.
La sovrapposizione di immagini cangianti e suoni stride con l’atmosfera silenziosa che si percepisce all’ingresso. Il tema è esplicitato, ma le proposte progettuali sono espresse in maniera essenziale, se non addirittura scarna. Basate sull’evocazione e l’astrazione dei concetti, le singole installazioni risultano di difficile comprensione.
Mancano le informazioni e la concretezza del lavoro fatto, per quanto valido. L’allestimento complessivo è monodimensionale, ma non ha una vera e propria organicità tra le parti. La sola architettura che si vede è quella protoindustriale dell’Arsenale stesso.
Sara Damascelli
Biennale Architettura 2023 fino al 26 novembre. Per saperne di più: https://www.labiennale.org/it/architettura/2023