La femminilità dietro un collant, nel progetto fotografico Io continuo ad esistere di Sara Meliti, racconta storie di sopravvivenza, storie che aiutano a rifiorire.
La femminilità può essere simboleggiata dai collant, l’indumento che tutte le donne indossano quotidianamente, dall’infanzia all’età adulta. Ci sono diversi modi di portarli, capi comodi o strumenti di seduzione, quel che è certo è che valorizzano la bellezza di una parte del corpo identitaria per il genere femminile.
«Le gambe delle donne sono dei compassi che misurano il globo terrestre in tutte le direzioni, donandogli il suo equilibrio e la sua armonia», diceva L’uomo che amava le donne di François Truffaut. Purtroppo c’è chi ha infranto quella visione di bellezza pensando che il compasso servisse a misurare, e compiacere, il proprio ego.
Sulla violenza subita, ma soprattutto su nuove possibilità di rinascita si esprime il progetto a lungo termine Io continuo ad esistere della fotografa Sara Meliti, iniziato nel 2013, tuttora in corso e aperto ad ampliare i suoi ritratti. Una serie di immagini che colpiscono emotivamente non tanto per le espressioni sul volto delle protagoniste, spesso celate, quanto per la loro relazione con un elemento materiale su cui riflettere la propria storia, con il quale possano decidere di rappresentarsi.
Le immagini di Io continuo ad esistere sono state pubblicate su Lezioni di fotografia di Oliviero Toscani. Questa è la loro prima recensione.
Al momento le donne coinvolte sono sei, tutte vittime di abuso fisico, psicologico, domestico, di persecuzione religiosa e politica. Non si intende fornire una casistica del dolore o delle limitazioni alla propria vita, né tantomeno il progetto va visto come un reportage, una cronaca di fatti tragici. Il punto di vista è soggettivo, sono le persone ritratte che scelgono il modo in cui esprimere la propria resilienza, il proprio presente cresciuto con la personale sensibilità in rapporto al passato. Quest’ultimo ha lasciato tracce, segni con i quali si fanno i conti quotidianamente, che non vogliono essere dimenticati e che vengono accettati quale prova di sopravvivenza della propria femminilità. Perché ad essere colpita è stata proprio l’identità femminile, ad essere stata avversata è una forza che ha messo a rischio una pretesa autorità su una presunta debolezza.
Oggi queste donne sono state invitate da Meliti a mostrarsi per come si sono salvate, accompagnate da un simbolo di ciò che non è stato distrutto: si sono rialzate senza nascondere la fatica.
La fotografia non le ritrae come vittime bisognose di commiserazione ma come superstiti coraggiose con un futuro da ricostruire, spostando dall’ombra l’oppressione e mettendo in luce la consapevolezza di uno scampato pericolo. Le loro immagini sono voci spezzate che stanno ritrovando armonia, in una melodia corale. Un canto d’amore per la femminilità secondo diverse intonazioni.
No, Io continuo ad esitere non è un reportage. E’ arte nella quale si riscopre un’irriducibile bellezza nonostante la violenza.
Il collant è stato nella storia un alleato per la femminilità, dalla seta alla rivoluzione del nylon che ha permesso ad ogni ceto sociale l’utilizzo di un indumento prima appannaggio di poche.
Dal dopoguerra le calze non sono più un prodotto esclusivo, ma inclusivo. Nei paesi occidentali tutte ne posseggono almeno un paio, sono un accessorio di base, una piccola dichiarazione di identità di genere e del bisogno egualitario di apparire eleganti. Certamente spinte dalla pubblicità le loro virtù, sono diventate anche sinonimo di emancipazione per il fatto di poter essere indossate anche con minigonne, senza bisogno di reggicalze, e perché dato il basso costo possono essere sostituite e non riparate.
Alle doti elastiche dei collant moderni è affidata nel progetto fotografico una libera interpretazione del trauma, come un tessuto che custodisca tra le sue maglie il ricordo dell’accaduto e mantenga la protezione del corpo, il suo ritorno ad una forma riconoscibile. Ci sono immagini nelle quali attraverso le rotture persiste una presenza forte, altre nelle quali la velatura nasconde lo sguardo e i lineamenti, altre ancora dove assume il ruolo di compagna, femminilità ricercata inalienabile anche nel dolore che trasforma.
Gli scatti giocano con quei fili lesi, nella loro duplice veste di barriera e rivelazione dai quali le donne non si staccano, affidando loro un messaggio: io continuo ad esistere.
C’è chi lo fa con sfrontatezza come Mahnaz Ekhtiary, artista esule dal regime liberticida iraniano, che guarda dritta in camera attraverso la smagliatura di un collant nero. Ha desiderato “metterci la faccia” senza indugio. Per altre la fotografa ha accolto la richiesta di non dare piena riconoscibilità ai lineamenti, di non presentare un vero e proprio ritratto. Alcune donne riflettono sulla propria esperienza ricreando sul volto l’idea di una condizione di prigionia. C’è chi infine ha indugiato sull’osservazione della calza e chi persino l’ha avvolta dolcemente intorno al corpo, nel desiderio di alleggerire quel simbolo di femminilità. Spostandolo dal ricordo dell’offesa, di offrire ad esso una rinnovata eleganza.
Prima dell’alba delinea un viaggio ispirazionale, attraverso una rivendicazione di dolore e di possibile rigenerazione.
Nella condivisione di un percorso verso la luce si può innescare un circolo virtuoso che coinvolge altre donne vittime d’abuso, facendole sentire comprese e capaci di rifiorire. Lo ha dichiarato dopo i primissimi scatti l’autrice:
“Come fai a spiegare a qualcuno che l’abuso era solo una parte di ciò che era?
Come lo spieghi a te stessa?
Ricordo a me stessa che un atto di violenza non può mai essere un atto d’amore.
Per la prima volta vedo il mio riflesso nelle altre donne emerse da un pozzo tanto buio.
Donne indescrivibilmente coraggiose che hanno condiviso le proprie storie, e così facendo, mi hanno salvato. Donne che mi hanno stretto a loro con il loro dolore.
Oggi prego che le mie parole possano giungere a quella donna a pezzi che le legge, e abbracciarla.
Spero che le forniscano la forza e l’amore di cui ha bisogno per risollevarsi e uscire dal pozzo”.
Michela Ongaretti
Per conoscere le altre produzioni fotografiche http://sarameliti.it