Lo scultore Paolo Migliazza si presenta ai miei occhi appena dopo la fine dell’ondata pandemica, quando il brio di ricominciare era dentro tutti i pori della nostra pelle. Mi accompagna per una visita alla storica galleria bolognese l’Ariete artecontemporanea, che lo rappresenta e che stava esponendo esempi interessanti, rivelatori della sua decennale ricerca.
Disposti su totem di legno intrecciati tra di loro, una squadra di bambini, che spiccano in forma ribelle da esercito militare.
Ne rimango subito colpito. Per addentrarmi allora nel pensiero di Paolo e diventarne in maniera illusoria “parte” sono stato ospite più volte nel suo studio bolognese, accompagnando la conversazione a diversi momenti del suo lavoro. Mi ha appagato avvicinarmi all’artista senza prudenza, senza barriere, esplorando le sue molteplici visioni.
L’artista ha avuto l’idea di scolpirmi, e mi sono subito immaginato un modello vivente di un’accademia di Belle Arti ma ho anche sorriso ripensando a Massimo de Carlo appeso da Maurizio Cattelan, una posa simile in una dimensione più privata e lirica. Qui allora, in questa fucina dove si respirano polveri profuse di vario tipo, trovo appoggiati in bilico pezzi di vetro che emergono timidi con assorti visi prodotti con ditate veloci, in nero carbone, penso allora che rappresentino una prima fase di preparazione, invece sono lavori a sé.
Per lo scultore la scelta di un corpo o l’altro non ha importanza per arrivare all’opera completa, ma io sono pronto ad un’esperienza del tutto diversa: a vivere direttamente sul mio la sua idea, a diventare uno strumento nella sua pratica artistica, comprendere l’importanza delle diverse azioni secondo certe tempistiche, a sentire sulla pelle la materia che si trasforma.
Il corpo nudo inizia così ad essere riempito di vaselina, che serve ad aiutare l’avvenire nella fase successiva il distacco del calco dalla pelle. Mentre con naturalezza Migliazza scioglie il gesso nell’acqua e mi ricorda un pastore che lavora il caglio nel latte, trovo in questa ripetizione gestuale una poesia di profonda unicità.
Tutto ha bisogno di struttura per essere duraturo e così pezzi di garza per legatoria e pali di legno si fanno spazio dentro il gesso che cola freddo. Coprendo il corpo disteso interamente intanto mi rassicura che a breve, nel processo di consolidazione, dal freddo frizzante si passerà al riscaldamento del calco. In questa fase, certo la più viva, dove il gesso viene disparso in modo fulmineo, l’animo dell’artista emerge distaccandosi dalla realtà del momento, come in uno stato di trance, per poi fermarsi e lucidamente pensare per rispondere alle mie diverse curiosità.
Mi domando allora se verranno calcate solo alcune parti o l’anatomia nella sua forma completa. Così nasce un dialogo sul vuoto, che per lo scultore è una suggestione più funzionale per esprimere la sua poetica, rispetto al completamento dell’opera monolitica, evidenziando ogni parte anatomica.
La nudità era un discorso inevitabile nel momento in cui sul mio corpo avevo prova del suo modus operandi. Migliazza ritrae figure senza vesti in quanto vuole restituire il corpo alla sua condizione ultima e prima, due momenti che accomunano ogni essere umano nel suo stare al mondo.
Disteso per terra interpreto Gesù cristo in croce: è una figura che lo affascina da quando ne ha memoria, anche nella scelta di riprodurlo più volte infinitamente e per lo più in croce piuttosto che durante la flagellazione o altra scena della Via Crucis. Quindi si tratta di una prossemica posturale che prende spazio e fermenta nel corso della storia dello scultore. Siamo figli e schiavi della cultura cattolica, afferma, capisco che allora è più una scelta varata per revival dell’immagine piuttosto che una fedele connessione al credo cristiano.
Per quanto l’opera sia il riflesso di un’iconografia spirituale la superfice ruvida e colante è lontana dal dissolvere la sua luminosità.
Grazie a questa riflessione forse aggiungo una mia conoscenza più profonda dello scultore e del suo desiderio di tracciare una linea più angosciante di vissuto personale, trasfuso alla materia. Pur usando sapientemente le mani modellando vari materiali sulla scultura in divenire, l’eco del calco resta ben evidenziato ed è così che ne esce un corpo come masticato, con la sensazione dell’epidermide a tratti incompleta, a tratti interrotta. Un ritratto di una società fatta di rovesci e contraddizioni.
Il corpo di Gesù Cristo nella scultura e nell’arte ha ricoperto un ruolo centrale nella tradizione artistica cristiana, fungendo da simbolo di sofferenza, redenzione e divinità. E’ un soggetto ricco di significato che ha attraversato i secoli, trasformandosi continuamente per rispecchiare le credenze, le emozioni e le aspirazioni spirituali delle diverse epoche. Ho risentito lo scultore qualche giorno dopo e la sua idea si era evoluta, il Cristo in croce pensato inizialmente viene portato alla figura della deposizione, trasformandolo in un re. La deposizione del re, titolo dell’opera per la quale ho posato, è un evento di grande importanza storica e politica che comporta la rimozione di un monarca dalla posizione sociale che ricopre, può avvenire per vari motivi, ma sempre per la necessità di cambiamento da parte del popolo o di altre forze politiche.
L’accostamento insolito ad un’iconografia tradizionale ci fa intendere il bisogno dello scultore di ribaltare la visione antropocentrica rinascimentale: l’uomo non è più sovrano ma deposto.
Fino al 16 giugno, è possibile osservare La deposizione del re di Migliazza all’interno della mostra Dell’umana dimensione. Sarà esposta accanto a lavori di Enrica Berselli, Giulia Bonora, Bartolomeo Cesi, Jingge Dong, Francesca Dondoglio, Marika Ricchi e Giacomo Vitturini in una cornice di pregio storico come il castello di Vignola.
Dell’umana dimensione prende forma in seno alla rassegna Arte e Visioni Contemporanee lungo la via Emilia, ed è curata in team da Ricognizioni Sull’Arte, Alessandro Mescoli, Massimiliano Piccinini, Sergio Bianchi, Andrea Barillaro e Federica Sala. Con la collaborazione di Marcello Bertolla e Giorgia Cantelli. Il progetto d’arte del nostro tempo, anche nella confronto con un ambiente complementare, portando installazioni ad hoc nel contrasto con la decorazione ad affresco delle pareti. Questo dissidio ci regala un’esperienza attivante, suggerendo al visitatore come, nel contesto sociale attuale che rischia di portare alla disumanizzazione, alla responsabilità dell’individuo, è bene riflettere sulla sua vera ed intima identità, recuperando la propria “Humanitas”.
Osservare il corpo maschile scolpito da Paolo Migliazza è come ammirare un racconto visivo, ogni venatura del gesso narra un momento di un processo verso l’incarnazione di un sentimento, una storia di disciplina artistica e bellezza. L’esposizione a Vignola mette in luce un nuovo corso della sua ricerca, nel quale “corpi frammentati, arti, volumi come relitti” sottolineano ciò che resta della presenza fisica attraverso il calco: la sua posizione nello spazio e la sottrazione di volume anelano alla memoria del corpo, nella sua simbologia e nella storia dell’arte. Ho partecipato, nel vivo della costruzione di una scultura, a questa evoluzione.
Bohdan Stupak