Volti enigmatici senza connotati di una specifica identità, fuori dal tempo. Momenti di vita quotidiana di personaggi anonimi, catapultati nella realtà dalle pennellate fluide di Gideon Rubin, che ho osservato da vicino nel settembre 2020 presso la galleria Monica de Cardenas, a Milano.
Da quel prezioso periodo di interregno tra lockdown e chiusure, le opere della mostra personale dell’artista israeliano si sono conservate nella mia memoria per la qualità disciplinare e per la forza evocativa del colore. Ventisette dipinti su tela o lino e una parete di piccoli pezzi su cartone, che rappresentano il mondo poetico tra il 2018 e il 2020, di un artista esposto e collezionato in tutto il mondo.
Una dialettica tra soggetto e materia
L’astrazione dei volti fa risultare le scene evanescenti, così da evocare un momento che riaffiora alla memoria, dal passato, una realtà intima che incoraggia un’interpretazione personale, come se la lacuna della mimica facciale possa essere colmata dall’immedesimazione di chi osserva, dal suo ricordo di esperienze possibilmente vissute. La seduzione pittorica di Rubin, astro nascente dell’arte contemporanea mondiale, attiva il coinvolgimento attraverso l’empatia, ma la sensazione che permane è quella di una malinconia irriducibile, che indugia nella nostalgia. Siamo complici di un racconto lento di gesti sospesi, bilanciato dalla costruzione di un contesto definito dal colore fluido, dal dinamismo della pennellata che lascia intravedere la tela. I soggetti sono stilisticamente rivelati e celati al contempo, nella contraddizione tra definizione dei dettagli, mediante il non-finito, e “impossibilità” dei ritratti, ovali senza espressione ma pieni, densi di colore.
Immagini pubbliche, immagini private
Il quotidiano ritratto da Rubin non è studiato dal vero, piuttosto il processo creativo parte da una raccolta meticolosa di immagini che già di per sé appartengono al passato più o meno recente. Le fonti ispirative sono molteplici: provengono da fotografie, vecchie riviste o pubblicità da tutto il mondo, sulle quali a volte l’artista ridipinge sopra, lasciando intravedere gli strati di materia, e di memoria. Sullo stesso piano vengono poste la cultura accademica, nei lavori che citano un capolavoro della storia dell’arte, e quella dei mass media, per un artista che ama riappropriarsi dei frammenti di una storia in cui il confine tra personale ed universale, conscio ed inconscio resta volutamente sfocato.
Un archivio di situazioni dalle quali i volti sono privati dei tratti somatici, lasciando al contesto la facoltà di descrivere, o meglio evocare, un mondo a cui tutti noi potremmo appartenere. Il materiale che ha avuto una diffusione ampia, pubblica, cambia registro sotto gli occhi e il pennello di Rubin, che lo traspone nella realtà di un privato plausibile, capace di colpire in maniera differenziata a seconda della storia personale di chi osserva.
Il sentimento dell’assenza
L’occultamento dei lineamenti sui volti, o sul volto perché spesso la figura rappresentata è singola, è istintivamente avvertito come un’anomalia. Il gioco psicologico della negazione colpisce portando ad avvertire un sentimento di assenza che spinge a ragionare sul contesto, a cercare una permanenza in ciò che è identificabile, lasciandoci trasportare da quel senso straniamento verso un altrove ricostruito dal nostro occhio, nei dettagli della figura e dello sfondo. Il meccanismo porta al ricordo personale, attraverso la dimensione non-oggettiva, più che atemporale, un ricordo che trascolora nel sogno, dove tutto è possibilmente reale ma non tutto è chiaro e definito al risveglio, quel momento in cui oblio e memoria sono ricombinati.
Ogni dipinto è un momento senza drammaticità ma carico di un’atmosfera nostalgica di sospensione narrativa, languore di un tempo che si dilata nell’attesa di una domanda. Chi sono costoro? Cosa provano e cosa li ha portati a compiere quei gesti così comuni come svestirsi o abbracciarsi, fare il bagno o sedersi in contemplazione, si rivolgono a noi o sono immagini rubate allo specchio? E’ così misterioso il loro sentimento da farci avvertire, nella lacuna fisiognomica, un’anomalia attivante. La sensualità suggerita da un movimento del soggetto e accentuata dalla pennellata non trova conferma sui volti, così da destabilizzare il nostro qui ed ora, per riportare alla solennità del simbolo, l’incompletezza corale apre le porte di una dimensione universale, conscia ed inconscia.
Pittura di contrasti
I dipinti di Rubin giocano sulla contrapposizione armonica, anche cromaticamente, sul dialogo tra elementi opposti. Troviamo soprattutto colori sabbiosi, blu grigiastri, resi meno timbrici dalla forte componente del bianco di zinco, tuttavia sempre giocati in alternanza chiaro e scuro, colore caldo o freddo che regalano allo spettatore la freschezza di una epifania improvvisa, come una fugace messa in scena della materializzazione del sogno. Se questi a prima vista possono ricondurre alle predominanti delle riviste vintage, l’artista dice di avere semplicemente un’istintiva predilezione per i colori della terra, mentre la parsimoniosa componente rossa ha una funzione più precisa. Gli sprazzi di rosso servono da indicatore, “come un cartello stradale” che evidenzi un dettaglio che avvii un dialogo tra spettatore e dipinto.
Il pennello in alcune aree dello sfondo cede spazio, con evidenza alla nudità della tela in lino grezzo, della tela o del cartone da imballaggio. L’intento è quello di offrire una stratificazione che suggerisce la diversificazione delle visioni, l’intersezione tra le varie memorie individuali su più livelli di interpretazione, proprio qui spesso si intravede una punta di quel rosso suggeritore. Le pennellate sono evidenti, rapide, si fanno notare moltiplicando ancora le visioni, spostandosi dal soggetto al processo pittorico, e a tutto ciò che formalmente può dare un’espressione, tutto tranne i lineamenti dei volti. Anche attraverso lo stile pittorico quindi si possono leggere le figure senza identificazione personale, senza identità univoca.
Nascita di uno stile. Niente o troppo di personale
Le situazioni descritte dai dipinti di Rubin, e il suo stile inconfondibile, possono essere letti come frammenti di una storia multivalente, che sotto diversi punti di vista trae origine da un trauma identitario reale.
Gideon Rubin nasce a Tel Aviv, ma dopo gli studi negli Stati Uniti vive e lavora a Londra. Si trovava a New York, nell’Ottava Strada, l’11 settembre 2001, ed è stato un testimone diretto dell’attentato alle Torri gemelle. Quel momento ha cambiato definitivamente la sua vita di uomo e di artista. Prima di allora aveva sempre realizzato ritratti a figura intera che impiegava mesi a realizzare, amando il realismo dei particolari sui volti.
Al ritorno a Londra inizia a dipingere su giocattoli abbandonati da lui raccolti: erano come ritratti logori con poche tracce di espressione ancora intatti. Quando ricomincia a ritrarre persone la sua pittura si è fatta più veloce e fluida, sempre più semplificata fino ad astrarre completamente i lineamenti. “Un occhio è diventato solo un’ombra, poi è scomparso del tutto”.
A differenza quindi dei primi dipinti, ritratti di amici e familiari, la ricerca più recente di Rubin pare non attingere alla vicenda personale, ma in realtà ciascuno di questi anonimi personaggi è riconosciuto come possessore di una chiave per una storia, a cui il pittore stava cercando di attingere. Una storia lontana, quasi un rimosso nella memoria che riguarda la cancellazione dell’identità.
Volti e memoria di famiglia
Presenza ereditaria silente, fino ad allora, è stato il bisnonno Reuven Rubin. Il pittore realista romeno, si rifugiò in Israele per sfuggire all’Olocausto, dal quale solo tre di dodici fratelli sopravvissero. Anche se Rubin non lo ha potuto incontrare, aveva solo un anno alla sua morte, in un certo senso i volti astratti e senza espressione dei suoi lavori portano alla luce una testimonianza mancante, di un dolore celato dal tempo. C’è anche una memoria familiare interrotta nell’impedimento di una naturale fruizione di un discorso, l’elaborazione di un lutto su quelle immagini fantasma.
Su stessa ammissione di Gideon ci sono stilisticamente riferimenti consapevoli all’opera di Reuven, osservata a lungo nelle piccole figure nei paesaggi, descritte con semplici macchie di vernice. Tornando alla ritrattistica dopo il 2001, superando la connotazione tragica di deterioramento dei giocattoli ridipinti, l’artista realizza quante informazioni si possano dedurre fuori dalla descrizione dei volti .
Si può descrivere bene una persona da come si muove o veste, dalle azioni ripetute, così che la pittura rimanga in equilibrio tra pubblico ed individuale. Per questo è un atto positivo cancellare per Rubin, perchè è come lasciare un segno che è anche una domanda aperta verso l’universo personale dell’osservatore, invitato così a completare i dettagli mancanti con i propri ricordi.
Tutti siamo la Storia, nei momenti rubati al quotidiano, così intimo e così astratto, soggettivo e universale. La pittura di Gideon Rubin vive in un regno molto lontano, incredibilmente vicino, parafrasando il titolo di un romanzo di Safran Foer, un altro intellettuale di origini ebraiche scosso dalla violenza dell’attentato alle Torri Gemelle.
Michela Ongaretti