Io non sono di questo mondo mi ha attirato ancora una volta al Festival Exister, negli spazi di DanceHaus. La kermesse milanese è da considerarsi uno showcase coreografico che coinvolge compagnie italiane ed internazionali, e che si avvale del centro di produzione per la danza contemporanea, di rilevanza nazionale, DanceHauspiù.
La creazione dello spettacolo è della coreografa Paola Lattanzi che compare in scena in un intenso, metaforico e tragico atto, accompagnata proprio dalla compagnia di DanceHaus.
Per la seconda volta nel palinsesto che con alcune pause prosegue per tutto l’anno, Io non sono di questo mondo nasce dalla sperimentazione di uno studio, evolvendosi nel corso del tempo fino alla forma presentata allo spettatore il 26 novembre. E’ il motivo principale per cui suggerisco di seguire il festival: non una rassegna di opere “chiuse” ma degli esempi pulsanti di confronto tra idea e realizzazione, nel confronto tra coreografia e allestimento, nelle impressioni registrate tra il pubblico.
L’interesse verso la danza contemporanea è cresciuto in me in particolare per l’autonomia del corpo nella sua capacità espressiva.
Non che nelle discipline performative più tradizionali non abbia un ruolo rilevante, eppure non vince mai. La danza si affida squisitamente al corpo, superando la necessità di puro intrattenimento, affidando al movimento la narrazione di concetti e stati d’animo, ammettendo nel suo svolgersi anche la presenza di disarmonici passi, di ritmiche ( o aritmiche) pause. Riesce a costruire un discorso complesso e articolato attraverso la mimica di ogni muscolo, senza bisogno di parole. Che questa possa essere una mia visione, magari estrema perché tanti spettacoli d’oggi sperimentano anche nella contaminazione tra drammaturgia e linguaggio del corpo, mi pare oggettivo ritenere che in tal senso Io non sono di questo mondo abbia centrato il bersaglio.
Con il sottofondo del frinire di grilli lo spettatore vede al principio entrare in scena tre giovani: Edoardo Brovardi, Nicolo’ Castagni e Pietro Ongaro. Sono impegnati a mantenersi collegati da uno spago che può restare teso, descrivendo una forma geometrica tra i corpi equidistanti, in equilibrio.
Oppure quel filo può esser mosso, allungato o accorciato determinando rapporti spaziali differenti di vicinanza, permettendo una comunicazione di volta in volta diversa tra i ballerini. Sono vasi comunicanti i corpi di personaggi che vivono dell’esistenza dell’altro come in un organismo. Anche se uno viene celato a tratti alla vista essi funzionano insieme come canali di energia e di scoperta: quando un confine di quel filo, che richiama il bandolo del pensiero logico, si avvicina al petto di un danzatore, un compagno lo tocca con un dito, come a voler indagare una creatura sconosciuta, inedita al suo senso della realtà.
Non è ancora il momento per Lattanzi d’entrare in scena ma le luci squarciano il buio in un angolo, mostrando per poco il corpo chiaro come una spettro della ballerina. Scompare, eppure ( o forse proprio per questo) accresce in chi guarda la sensazione che l’apparizione tornerà, che sia un monito o una profezia di ciò che il terzetto non ha esperito. Quando le luci rosa accolgono la sua figura solitaria, essa appare meno fantasmatica di quanto ci sia sembrata. Che sia quella la realtà oltre le apparenze, oltre agli incontri di quella notte stellata accompagnata dalla stridulazione dei grilli? Oppure è già sogno, oltre l’attuale?
“Io non sono di questo mondo. Ma sono in questo mondo e ne abito il confine”.
Titolo e premessa per un viaggio nel profondo, ci aiuta a comprendere il territorio nel quale le presenze sceniche si protendono, lasciando un margine di mistero sondabile seppur nell’ambiguità.
Irriconoscibili presenze dai volti coperti inscenano un rituale, mediante il posizionamento di fiori sui limiti del palco: una celebrazione silenziosa dal doppio senso, che può condurre alla rinascita o all’omaggio funebre. Le corolle rosa che in Natura sono esplosione vitale, rappresentano anche l’ultimo stadio prima di una ciclica trasformazione, destinati a cedere la loro grazia al deperimento. Nella nostra cultura decorano luoghi di sepoltura, collegano il saluto estremo del vivente a quanto non è più di questo mondo. Qui accolgono una presenza vitale, eppure aliena, una figura che si dichiara un passo avanti nel processo metamorfico, che si identifica come confine. I danzatori sono caduti a terra, fermi in una dimensione non superabile, che si stabilizza ai nostri occhi.
All’interno del cerchio descritto dai fiori posizionati dai danzatori, l’apparizione dei primi momenti si materializza.
Manifesta una presenza fisica e reale, corredata di tacchi alti e dunque abbellita, decorata come l’umano fa consapevolmente, ma deumanizzata nell’evoluzione delle movenze, ora accoccolata ora offerente a chi guarda gli arti estroflessi. Fa pensare ad un aracnide, o tornando all’idea del filo alla tessitrice mitologica Aracne. L’essere punito dalla dea Atena per la sua hybris, costretta a filare per sempre, bloccata nell’azione che il suo nuovo corpo non le permette di compiere armonicamente. Il preciso studio di sapienti movimenti rallentati e poi sincopati, grazie ai quali si ha l’impressione che la forma anatomica suggerisca un superamento della sua percezione, riflette dal mio punto di vista ciò che anima tutto lo spettacolo: il dualismo tra mente e corpo.
In questo territorio di mezzo, nella dissociazione tra concretezza e immaginazione possono spalancarsi le porte del simbolo verso le potenzialità dello spirito, accettando però la sua realtà indivisibile dalle funzioni del corpo.
Se sappiamo cosa significhi vestirsi dell’intreccio di fili, come condurre un ragionamento, è perché abbiamo coscienza dello spogliarci, e della perdita di una comunicazione efficace. Così l’immanenza del mondo, che esiste se abitato dall’Uomo, si può affermare solo da fuori rispetto al suo concetto, in opposizione alla trascendenza. Quest’ultima irriducibilmente segna il pensante che può avvicinarsi all’immanenza come orizzonte. Per questo ciò che fa Paola Lattanzi in Io non sono di questo mondo è il “divenir animale” formulato da Gilles Deleuze: oltrepassando il soggetto, semplicemente un vivente non segnato dalla trascendenza e dalla scissione. Affinchè non ci sia “altra evidenza che quella del corpo”, bisogna guardarlo anche dall’esterno, nel rinascere sotto altre sembianze. E’ quello che insinua tra gli spasmi del movimento la coreografa, addentrandosi nella doppia esistenza del suo linguaggio.
Io non sono di questo mondo ma continuo a farne parte, nell’eterna sfida tra materia e spirito. In scena la notte sta mutando in giorno, i grilli non cantano più.
Michela Ongaretti
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