Le piante sono state oggetto di osservazione nei secoli. Il nostro rapporto con il loro mondo è esplorato attraverso diverse rappresentazioni, che testimoniano altrettanti approcci alla loro conoscenza, in una insolita esposizione al Palazzo del Governatore di Parma. Impronte non è una mostra d’arte ma suggerisce un futuribile coinvolgimento di coloro che lavorano con la narrazione per immagini, evidenziando un necessario e proficuo scambio con le discipline scientifiche dedicate al regno vegetale.
Nei percorsi di formazione e nella comunicazione di massa le piante sono spesso attrici non protagoniste, se non comparse silenziose. Della loro importanza pare siano stati consapevoli fino a pochi anni fa solo gli studiosi, eppure qualcosa sta cambiando. Illustri orti botanici, che sono la casa delle piante, non solo della botanica, hanno aperto al pubblico generalista i propri tesori, e realizzano progetti interessanti anche grazie all’uso di nuove tecnologie. Con questi intenti nasce Impronte, che espone vari esemplari dell’Orto Botanico di Parma, parte del circuito museale dell’ateneo emiliano, integrando materiali di altre importanti istituzioni italiane ed estere.
Quali i possibili scenari per una nuova cultura e una nuova rappresentazione degli organismi vegetali? Ne parliamo con Renato Bruni, professore associato in Biologia Farmaceutica, ideatore di Impronte e attuale direttore dell’Orto Botanico dell’Università di Parma.
Come mai Impronte si trova al Palazzo del Governatore?
L’Orto Botanico non ha uno spazio abbastanza grande per ospitare un percorso di mostra così articolato e di fatto in questo momento è un cantiere. Stiamo realizzando due ambiziosi progetti: uno coinvolge la sistemazione esterna dei giardini storici e l’altro riguarda la ristrutturazione di tutta la parte muraria delle serre e degli edifici. Cambierà la destinazione d’uso di altre aree. Qui si anticipa lo stile di comunicazione dei temi che andremo a toccare. Una mostra così ricca di spunti dà anche modo di far comprendere che nel futuro Orto Botanico si cercheranno di sviluppare molteplici approcci allo studio delle piante, in ambito umanistico, di gestione ecologica, del paesaggio, del verde urbano, ecc.
In questo periodo storico il grande tema dell’ecologia è entrato anche nelle opere d’arte, ma perché secondo lei è più facile trovare tra i soggetti animali e non piante?
Principalmente per due motivi. Prima di tutto gli animali assomigliano di più a noi che ci interessiamo maggiormente alle cose che ci riguardano. Con quel regno si crea un contatto. Inoltre fino ad alcuni anni fa essi hanno dominato la scena dei documentari creati dagli zoologi, e da un certo tipo di ecologi, perché hanno caratteristiche che li rendono più scenografici o accattivanti per un film.
Dunque l’indagine scientifica nel diventare popolare ha condizionato anche l’immaginario artistico. Forse la figurazione animale contempla anche il riflesso della nostra evoluzione?
Certo anche dal punto di vista dell’evoluzione gli animali vanno ad una velocità che è la nostra, le piante no. In termini di movimenti, di ritmo di crescita di vita, degli aspetti di lentezza. Questo le rende a noi aliene. Non hanno occhi e naso, ma un sistema di comunicazione e interazione con il mondo, anche di acquisizione dell’energia, che è totalmente differente da noi che biologicamente siamo più interessati a quello che ci interessa di più, e che è diventato più facile da presentare e da comprendere.
Cosa fare per destare attenzione verso le piante? E cosa suggerisce possa essere fonte d’ispirazione nella loro osservazione?
Posso dire cosa non dovremmo fare: umanizzare le piante, così come gli animali. Dobbiamo prendere dal mondo vegetale, e raccontare, ciò che è diverso da noi, perché la parte interessante e bella delle piante, il vero messaggio che dovremmo riuscire a fare arrivare, è che pur essendo un altro da noi hanno sviluppato tutta una serie di soluzioni da renderle in tanti casi molto più capaci di noi di resistere, di adattarsi e di sopravvivere.
Invece purtroppo buona parte della narrazione di successo è quella dell’umanizzazione. “Le piante vedono, sentono, sono intelligenti…”, tutto questo fa perdere l’aspetto più importante perché trasforma in un nuovo ennesimo antropocentrismo l’osservazione sul mondo. Le piante devono interessare non perché sono a noi somiglianti ma perché sono massima espressione della diversità.
Ma facendo parte di un sistema dalla loro esistenza dipende anche la nostra..
Sì, ma dalla nostra non dipende la loro. Se io dico loro sono come noi costruisco un sistema che mette l’uomo al centro e porta a dire che l’importante è che ci siamo noi, mentre invece è esattamente il contrario.
A parte l’ambito di pertinenza scientifico, siamo portati a non considerare le piante, se non per l’aspetto decorativo. Ho sentito parlare di plant blindness, di cosa si tratta ?
E’ un’espressione formulata dai due biologi Wandersee e Schussler secondo la quale noi siamo parzialmente ciechi rispetto ai vegetali. Siccome sono fermi e non rappresentano una minaccia aggressiva immediata, per noi sono solo tappezzeria, musica per ascensori, una cosa che percepiamo ma ignoriamo. Pensandoci bene anche quella è un’espressione antropocentrica, fa leva su un handicap dire che dipende da un difetto umano non vedere la realtà. Secondo me invece più che spingere su quel tasto bisognerebbe diffondere l’amore per le piante. È più una questione di “integrazione culturale”, mettiamola così.
Come sta instaurando un rapporto di fiducia con un’istituzione affine a quella che gestisce come l’Orto Botanico di Padova?
Stiamo coltivando da tempo un fruttuoso scambio e se non ci saranno intoppi stiamo per firmare un accordo per lo sviluppo di progetti congiunti dei sistemi museali. Esiste un legame storico che stiamo cercando di ravvivare. Giambattista Guatteri, che alla fine del XVIII secolo fonda l’Orto di Parma, viene mandato dal suo mentore a Padova a vedere come è fatto un orto botanico. Quello di Parma nasce a imitazione di quello di Padova, oggi patrimonio dell’Unesco con 270.000 visitatori l’anno e una struttura già organizzata e rodata. Noi non abbiamo che da attingere alle loro buone pratiche e scegliere quali adottare, declinandole secondo le nostre esigenze.
Due importanti aziende, Chiesi e Davines, hanno collaborato alla realizzazione di Impronte come sponsor. Perché investire in questo tipo di operazione?
Il loro coinvolgimento nasce dal fatto che la sistemazione dell’Orto Botanico ha anche un finanziamento privato. Sono tutte aziende certificate B Corp, che per statuto reinvestono parte dei loro utili in attività sociali; nel caso di Parma in particolare su attività di sensibilizzazione ambientale. Lavorano con associazioni ambientaliste per trovare piani di lavoro comune e sviluppare strategie per la città, quindi sono aziende interessate ad innescare queste dinamiche anche in futuro.
A proposito di futuro ci può dare anticipazioni sull’offerta culturale ed espositiva del rinnovato Orto Botanico?
Fino a poco fa divideva metà dei suoi spazi col Museo di Storia Naturale. Grazie alla ristrutturazione e alla sistemazione del museo presso altra sede quegli ambienti sono stati liberati, così avremo una zona dedicata ad attività di vario tipo, dai laboratori didattici ad un piccolo allestimento permanente, ma ospiterà anche mostre temporanee. Queste esposizioni saranno uno strumento utile allo sviluppo dell’istituzione: aumentando il bacino d’utenza e facendo tornare periodicamente i visitatori, dando espressione e visibilità a tante realtà che lavorano sul territorio, dentro e fuori l’Accademia. Inoltre si potranno realizzare mostre che nascano dalla collaborazione di diverse discipline su temi specifici diversi, purché elaborino uno storytelling fortemente basato sulla vita delle piante.
Ad esempio potrebbe trattarsi di illustrazione botanica classica, come di un’esplorazione sulla nuova urbanistica in relazione alle aree verdi, di un punto di vista su una figura ben precisa legata al mondo vegetale. Oppure potremmo ospitare installazioni site specific o di arte moderna che trattino temi legati alla sostenibilità o all’ecologia, come già succede nell’Orto di Padova. Non è tanto rilevante il fatto che le mostre abbiano un carattere più scientifico o che partano da una prospettiva più soggettiva, ciò che conta è lo scopo: evidenziare l’importanza della piante sul pianeta.
Quale valore aggiunto può dare a quello scopo l’arte visiva contemporanea?
Molti ricercatori non accettano il fatto che l’artista dia un’interpretazione rispetto alla produzione oggettiva della scienza; per molti, anche in ambito ecologico, spesso la componente artistica viene vista come qualcosa che è al servizio dell’individuo che la crea. In tanti ambiti le due culture sono ancora concepite come separate, intangibili. Parte del gioco della mostra Impronte è quello di dire che qualcosa nato con una motivazione scientifica non per forza debba risultare astruso o poco accattivante, e allo stesso tempo che ciò che nasce in un contesto artistico non sappia veicolare un messaggio utile allo studio scientifico.
Kahneman diceva: “Le persone non cambiano idea quando dai loro dei numeri, ma quando racconti loro delle storie”. Quelle narrazioni possono essere condotte anche attraverso le emozioni. Se lo sforzo è comune l’approccio oggettivo e quello emozionale hanno prospettive diverse ma aiutano insieme a raggiungere l’obiettivo sociale della conoscenza. Non è utile pensare di avere l’unico punto di vista adeguato, celebrare se stessi o la propria disciplina, e nemmeno dare solo informazioni specialistiche che arrivino a pochissimi; piuttosto coinvolgere anche l’aspetto più emotivo o di sentimento generale sposta dalla mia parte un gran numero di persone, senza pretendere che diventino esperte di quella materia.
Dalle visite guidate ho notato che a portare attenzione verso gli argomenti trattati è il lavoro in quella zona di confine in cui i dati vengono utilizzati da chi sa maneggiare le emozioni. L’importante è che quei dati non vengano distorti o che non li si usi in maniera strumentale, per arrivare a una conclusione differente da quella da quella a cui portano quei dati.
Così arte e scienza possono lavorare di concerto nella comunicazione al pubblico, anche con immagini spettacolari.
In una delle sale della parte più moderna e tecnologica del percorso, sono presenti varie immagini realizzate in falso colore, ovvero ricolorate in post-produzione. Sono state create dal lavoro congiunto tra un ricercatore e un graphic designer creando un piccolo paradosso rispetto al passato: se un tempo i ricercatori vincolavano i disegnatori a creazioni oggettive e più vicine possibile alla realtà, oggi invece si cerca di gestire la manipolazione del reale per sfruttarne i benefici nell’interpretazione dei fenomeni e nella diffusione delle scoperte. Insieme hanno applicato colori inesistenti in natura ma funzionali ad amplificare una certa comunicazione, a dare appeal per apparire sulle copertine delle riviste, che lavori sul sense of wonder delle persone e quindi veicolare con efficacia un concetto.
L’artista quindi oggi opera con finalità estetiche, ma contemporaneamente lavora con gli studiosi per generare opere che abbiano un impatto e una penetrabilità in chi guarda più forte di una semplice foto.
La tecnologia avvicina ancor più l’arte alla scienza?
Sì, perché la scienza ha più che mai bisogno di comunicare. Su diverse riviste come Plants, People, Planet e ultimamente su American Journal of Botany sono apparsi articoli che si interrogano su come usare le arti visive per riuscire a fare arrivare meglio determinati messaggi, e questa è un’istanza che parte dalla scienza. Come quando si chiedeva agli illustratori di disegnare non ciò che vedevano ma il paradigma astratto di tutta una specie, però oggi con innovativi strumenti.
Intervista a cura di Michela Ongaretti
Maggiori informazioni su Impronte qui: noielepiante.it