La Chola Poblete porta una ventata d’aria fresca al Mudec. Sì, perché la mostra Guaymallén apre il sipario su un corpus di opere nate da un incrocio di culture coabitanti in un contesto a noi lontano, anche geograficamente, abbracciando davvero la mission del museo contenuta nel suo nome, nutrendo un immaginario di rivendicazione identitaria profondo e leggibile in maniera chiara.
Non solo: finalmente incontriamo in un luogo istituzionale un nome nuovo, qualcuno che per quanto abbia già una carriera di rispetto, attualmente in esposizione alla Biennale di Venezia dove ha ricevuto una speciale menzione, non sia arcinota al grande pubblico. Questo è un dono: che il visitatore riconosca una voce autentica nel panorama dell’arte contemporanea viva e vegeta, non che venga attratto da un fenomeno del mercato.
E’ merito di Deutsche Bank aver premiato nel 2023 La Chola Poblete come Artist of the Year. Il prestigioso riconoscimento internazionale, giunto alla dodicesima edizione, porta i suoi protagonisti in un tour espositivo europeo dopo la prima mostra al Palais Populaire di Berlino.
Fino al 20 ottobre tocca ad un’area dedicata del Museo delle Culture ospitare Guaymallén, in collaborazione con 24 Ore Cultura, a cura di Britta Färber, Global Head of Art & Culture di Deutsche Bank.
L’artista argentina ha deciso di trasformare lo spazio in una “cattedrale del disegno” contemporanea, popolata di simboli, forme e figure senza un ordine gerarchico. Sono storie intrecciate tra i motivi religiosi, politici, erotici, indigeni, pop, a rendere immersivo un percorso multidisciplinare composto da stanze dalle pareti connotate da colori primari, simili alle navate laterali di una chiesa. Sono figure di un discorso inteso come una grande installazione, che si stagliano sui supporti delle opere, nelle sculture che occupano interamente alcune sale, negli angoli e persino sul pavimento.
Il progetto espositivo Guaymallén è un grido di rivendicazione identitaria, sovversiva nel falso ordine costituito.
Rende omaggio alla città natale dell’artista nel nord-ovest dell’Argentina, ai piedi delle Ande, e celebra un percorso di consapevolezza e lotta per la libera appartenenza a questo mondo. I soggetti che popolano la sua visione chiamano in causa le origini indigene e l’identità queer dell’artista, ma fondono la sua vita e le sue esperienze in un respiro d’insieme che da profondamente personale tocca l’universalità dei diritti. E’ un racconto sempre schietto, e per questo leggibile a vari tipi di pubblico, che evoca toni e sentimenti diversi a seconda della sala nella quale ci troviamo. Talvolta esplicita la tragedia della discriminazione, talvolta gioca a rendere pop i simboli di poteri millenari, mescolati a più recenti condizionamenti della società dei consumi.
La Chola Poblete si è dichiarata artista e attivista per i diritti LGBTQ+. Ci soddisfa che non abbia fuso il senso del suo lavoro nell’espressione “artivista” perché nella sua produzione è grazie alla forza intrinsecamente artistica che si rileva l’impegno politico, e non viceversa.
Attraverso la sua cifra stilistica ricorre a differenti media, scultura, disegno, pittura ad acquerello, fotografia, performance e videoarte, esplorando tematiche come le ramificazioni dell’Inquisizione, l’eredità della colonizzazione e l’influenza pervasiva del capitalismo globale, ma la grande scommessa della ricerca è una dichiarazione d’indipendenza dal pregiudizio.
Sarà per questa ragione che come visitatrice ricordo un viaggio piacevole tra le immagini, per quanto duro. A partire da un punto di vista soggettivo schietto, che denuncia realtà vissute sulla propria pelle, La Chola Poblete offre bellezza nell’atto di auto-affermazione. Come nella fierezza rivendicata in un acquerello su cui una lista di aggettivi dispregiativi finisce con “negra de mierda y orgujillosa”, che pare scritta dal personaggio a più occhi in primo piano, nel bianco e nero simboleggiante l’identità fluida. Sullo sfondo la sottile linea di volti resistenti. Sia negli altri acquerelli di grandi dimensioni che nelle altre opere altre molteplici storie di ribellione e salvezza convivono con l’antico canto di vergini, martiri e antiche dee.
Parlando di simboli religiosi è interessante come l’universo di La Chola contempli la loro ambivalenza.
In particolare la Madonna è un esempio del controllo della Chiesa sulla donna e sul suo corpo, proponendo un modello irreale e discriminatorio. E’ anche vero che la narrazione attorno al personaggio è entrata nella vita quotidiana, e nei ricordi d’infanzia. A quel modello di santità “bianca” l’artista si oppone, ma la ripropone proprio accanto e all’interno di altre espressioni della femminilità emarginate dalle stesse strutture di potere religiose o patriarcali, donne travestiti o transessuali nella stessa composizione.
D’altro canto La Vergine è un motivo assai ricorrente nell’opera di Poblete, incarnando il sincretismo tra cultura occidentale e comunità indigene, tra cliché del femminile e devozione familiare, come tema collettivo non intellettualistico che riesce a portare verso altre visioni. La riflessione coinvolge anche la non inclusione nel mondo dell’arte internazionale, anche in relazione all’identità trans e indigena, condizionato da logiche ideologiche e post-coloniali a determinare canoni su ciò che è considerato opera d’arte.
Il mio lavoro è un’opportunità per dare visibilità al mio cammino, a cosa penso sull’arte, e aprire una porta a chi si sente emarginato per dire che tutto è possibile. La mia è una lotta per l’empowerment.
Prima presenza all’ingresso di Guaymallén è una maschera realizzata in pane con un monile di anelli e piume. Tecnica e materiale sono congeniali da tempo all’artista che considera il rituale della panificazione affine a quello della creazione artistica; e che tratti qualcosa di vivo, che sfugga al controllo totale sulla forma.
A Milano l’operazione culturale si è arricchita della collaborazione con il Panificio Davide Longoni. Presso lo storico forno La Chola Poblete ha realizzato una serie di opere inedite, oltre a diverse maschere, due sculture antropomorfe a grandezza naturale che abitano due sale della mostra.
Sono tutti lavori che utilizzano il corpo come forma simbolica, non dimentichiamo che proprio attraverso il corpo si manifesta la rivendicazione di identità e la riflessione sulla Storia scritta dai poteri. Inoltre farina e acqua sono un composto organico destinato a consumarsi, proprio come il processo di crescita e morte che il corpo subisce. Quelle di La Chola Poblete sono sculture che attivano una transizione reale, che continua dopo l’esposizione ad un pubblico.
Se le maschere da un lato si riallacciano alla tradizione indigena, quindi legano il fare arte al linguaggio potente degli antenati, dall’altro richiamano l’azione del nascondere il proprio reale volto come richiede l’adesione all’etica religiosa, uniformando bisogni e desideri. Sotto quella barriera sono tante le invisibili identità. Nella prima sala l’installazione Sin tìtulo, La Chola Poblete rinnova la contrapposizione tra il concetto di regola e libertà: nel “dogma” geometrico della forma a croce, accanto alla rigida direttrice di una lancia di metallo, si dipana l’essenza fluida delle moltitudini di storie degli acquerelli, insieme al mistero dei sentimenti celati dalle maschere, nutriti dal calore del procedimento e dalla malleabilità della materia nutritiva.
Come cappelle laterali, una sala in giallo e una in rosso, sono dedicate ciascuna ad un’unica installazione scultorea in pane.
Lascio la sorpresa sulla seconda per entrare nel Giallo con Maria & papas lays () . Una figura femminile su un piedistallo appare solenne come la statua di una santa cristiana, richiamando al contempo la spiritualità indigena e l’ambiguità queer. Un’anatomia femminile acerba, senza sensualità, che allo stesso tempo suggerisce una sessualità mutevole, in trasformazione o in fase di sviluppo. Ecco ancora una volta il corpo della donna come non lo vorrebbe vedere la Chiesa, circondato dallo sfruttamento del capitalismo con la supremazia U.S.A. di un prodotto che ha origini sudamericane, privazione per l’opulenza. L’aura sacrale della figura si erge sopra alla corona di patatine come a superare l’idea di operare all’interno di un sistema, (dell’arte contemporanea?), con un risvolto personale nella parola papa, che in spagnolo significa anche papà, un vuoto nell’infanzia dell’artista, che l’arte e la vita affrontano.
E’ però nelle nuove opere fotografiche che l’immagine dell’artista recita apertamente il ruolo più drammatico nella denuncia di un mondo brutalmente non inclusivo.
Sempre nella logica di un ribaltamento di un ordine prestabilito e di paradigmi culturali e di genere, nella riappropriazione di un’iconografia mitologica o sacra, Guaymallén distrugge i clichè del dominio patriarcale, con narrazioni parallele e alternative. Ad esempio nella tradizione cattolica una delle più dolci rappresentazioni della Vergine è la Madonna del latte. La Virgen de la leche alias La Chola Poblete si trova in una macelleria, tra quarti di manzo e offerte speciali, riservando il miracolo del suo seno ad un mormone (ovviamente maschio) inginocchiato, Si coglie in un istante l’atto come anomalo, un riferimento allo sfruttamento portato dal colonialismo, di cui è erede in Argentina la forte presenza del gruppo religioso.
Poi, in un attimo, La Chola Poblete ci apre un varco verso la bellezza estatica e il mistero di altre identità comunitarie.
Se guardiamo in basso, in alcuni angoli della “cattedrale del barocco andino” è come se ci trovassimo più in alto, ad osservare da lontano delle speciali linee di Nazca. Sono figure sue, non ricalcano le esistenti. Eppure come quelle antichissime mostrano un anelito all’armonia, a voler portare nel futuro il disegno di molteplici esistenze.
Michela Ongaretti
La mostra è corredata di diverse attività educative, per saperne di più vi invito a consultare il link mudec.it/didattica/