Il silenzio assoluto non esiste. Di fatto in qualunque contesto il rumore partecipa alla vita e solo saper mettersi in ascolto permette di apprezzare le sue molteplici “sfumature”. E’ una lezione fondamentale nell’opera di John Cage che introdusse negli anni Cinquanta concetti come “caso”, “l’improvvisazione”, “i rumori ambientali” e sperimentò per la prima volta la musica elettronica. Con la sua indagine sulla natura del suono ha rivoluzionato la musica contemporanea, e ha influenzato generazioni di artisti. Specialmente chi ha portato la propria passione per la musica come fonte di riflessione nell’arte visiva.
Rielaborare un approccio solo apparentemente “silenzioso”, con una impostazione decostruttivista rispetto alle sue differenti componenti, è il mestiere di David Casini, Nicola Di Caprio e Jacopo Mazzonelli. Sono riuniti in mostra con NOT SO QUIET, PLEASE!, presso la galleria Giovanni Bonelli di Milano.
Per un batterista tuttora attivo come Nicola Di Caprio (1963) è un gesto spontaneo offrire riferimenti visivi diretti all’universo delle percussioni, ricorrenti nelle sonorità di Cage, insieme alla temporalità ritmata dell’immagine che ricorda le sue opere di video arte.
Ad esempio l’opera su carta Charleston trio presenta in nero due dei tre fogli che la compongono, come un intervallo o un “silenzio” interrotto solo da alcuni “rumori di fondo” resi con spruzzi di vernice. Sul foglio centrale appare la silhouette del charleston (l’elemento della batteria) che si staglia su fondo oro, creando un effetto ottico-percettivo che gioca con la presenza e l’assenza, raffigurando sia un corpo materico che la sua dissoluzione illusoria.
Si avvicina invece al mondo dadaista, di cui ancora Cage subiva fortemente la fascinazione, la semantica dell’opera Sasa Na Kisha. A parete un trittico funge da sfondo ad una scultura dalle fattezze africane su un piedistallo color blu elettrico. Il titolo rimanda ad una indicazione di un ritmo, del tempo in una partitura, perché in lingua swahili significa “di tanto in tanto”, ma anche in questo caso citazione e celebrazione di una storia per suoni e per immagini si intrecciano. Così la statuetta proveniente dalla cultura africana è quella passata dal filtro delle prime avanguardie e da Picasso con prolungata attenzione, intesa come emblema di aspirazione ad un linguaggio primigenio, di forma liberata dalle convenzioni figurali dell’occidente, che negli anni Settanta verrà inseguito anche in campo musicale.
Di Caprio esplora l’immaginario della cultura popolare, dei suoi codici come fenomeni sociali. E’ interessato a come si mescoli alla fluidità della vita contemporanea di cui fanno parte generi musicali come rock, jazz, elettronica, world music.
Uno specchio come quello dalla cornice nera con la scritta in vernice I Zimbra. Ancora una storia d’arte e di musica impressa in un titolo. Qui omaggia l’omonimo singolo dei Talking Heads del 1979, (nell’album Fear of Music prodotto grazie a Brian Eno), e attraverso l’intento proprio della band risuona una poesia dadaista d’inizio Novecento di Hugo Ball. I versi venivano ritmati dagli americani come se le parole appartenessero ad una neo-lingua africana. Nel frattempo si moltiplicano pure i suoni o i lievi rumori dei visitatori che si muovono davanti all’opera, riflettendo la propria immagine.
Nel codice degli enigmi visivi di David Casini la musica è linguaggio molto personale: vive nel ricordo di quella ascoltata, suggerita in silenzio da dettagli ritagliati da copertine di dischi.
Gli elementi delle loro grafiche giocano come indizi di misteriose sciarade che custodiscono un mondo interiore di citazioni e associazioni fantasiose. Con la garbata leggerezza di un divertissement, confermato dal modo in cui l’artista parla genuinamente del suo modo di lavorare, le installazioni sono costruite mediante elementi minimi, metalli, minerali e organici come frutta secca.
Più che di corpo volumetrico, l’aspetto scultoreo è dato dall’accostamento di diversi piani bidimensionali: incastri volatili che si danno forza nell’integrazione di materiali incongruenti, sempre con ironia scanzonata. Nell’insieme convivono stralci di epoche di ricerca diverse, caratterizzati da aspetti formali con un proprio “tone of voice”, da quei minerali provenienti da un più austero studio degli elementi alchemici ad una silhouette come autoritratto senza volto e senza inquietudine, alla giocosità di un amplificatore, objet trouvé che fa il verso ad una buffa trombetta, senza emettere suono. Tutta questa commistione formale e di temporalità attiva l’osservatore verso logiche e associazioni da surrealistico cadavere squisito. Con leggerezza. Restando ancorate al circuito della musica più popolare e nota, restando nel calore del quotidiano.
Tutti i titoli di Casini si riferiscono ad album musicali particolarmente significativi per l’artista, citati da piccoli ritagli o collage di copertine. Ad esempio nell’opera Anima latina dall’omonimo vinile di Lucio Battisti del 1975, anno di nascita dell’artista che “cita” sé stesso nella figura ritagliata in metallo.
In Get Loose Now, nome preso dal singolo del 1989 dei rapper 2 Live Crew, le sagome delle quattro figure femminili della copertina sono ritagliate in metallo dorato come silhouettes. L’aggiunta di pietre al posto delle teste dei musicisti fa sorridere, anche se ancora una volta rimanda allo scambio tra due universi, visivo e sonoro. Lo fa nel reimpiego di minerali che ragionavano, in altre opere, sulla trasformazione alchemica. Dunque un concetto profondo in forma semplice, su ciò riflette un cambiamento di stato, e di registro.
Più decostruito il riferimento musicale nell’opera iOrange Rolls, Angel’s Spit, titolo di una canzone del 1992 del gruppo Sonic Youth. I pupazzetti tridimensionali corrispondono a quelli bidimensionali sulla retro-copertina: disposti su una lastra di vetro, fanno l’occhiolino al Grande Vetro di Marcel Duchamp. Generi e sensazioni incrociati, quasi da scrittura automatica, sono incastonati in strutture dalle linee rigorose. La loro perpendicolarità ed equilibrio possono funzionare come gabbie razionaliste per proteggere un cuore giocoso, di cui alcune tenerezze restano celate.
Jacopo Mazzonelli (1983), è il più giovane degli artisti in mostra ma, diversamente da come potevo aspettarmi, il più serioso.
Sarà perché ha alle spalle studi musicali accademici, è laureato al Conservatorio, le sue opere sono concentrate su un lessico specifico, senza sconfinare in un territorio personale e dunque lasciandomi abbastanza fredda davanti alle sue costruzioni, comunque eleganti. Pensare alle potenzialità espressive degli strumenti e dei loro componenti lo porta a costruire sculture autonome, di cui l’eco concettuale trova ammirazione senza grande coinvolgimento, per chi come me non ha un rapporto stretto con lo spartito.
Tutta una parete, tra le principali della galleria, è occupata dalla grande installazione Finis. Si compone di rulli originali per pianola meccanica ancorati al muro. Gli elementi sono certamente osservabili come parti di un fantasioso strumento immaginario più ampio, che potrebbe idealmente prolungarsi oltre la superficie dell’intonaco, a cui vien concessa visione solo parziale. E’ vero che da lontano il succedersi delle estremità circolari nere ricorda le note su un pentagramma invisibile, ma il suggerimento di avere la sensazione di “ “una scala metaforica verso l’altrove”, nell’avvicinarci, è frutto di un’operazione puramente concettuale, che personalmente trovo quasi forzata.
Se non ci fosse l’indicazione della scritta “finis” su ogni gradino, che dichiara la fine del suono cioè il silenzio dopo l’esecuzione, non saremmo guidati ad immaginare di riempire di rumore quello spazio acustico rimanente, come avrebbe voluto Cage, lasciato stavolta da un’installazione visiva.
Invece a me continua a stimolare l’idea che un’opera di per sé, oltre agli intenti affermativi di concetto astratto deciso in partenza, possa mediante forma e materia personali attivare nuovi piani di lettura. Che sia uno stile a condurre in un altrove, che incontri la soggettività di chi guarda e di chi apre la visione.
Però resto volentieri davanti ad Abracadabra, che appartiene al ciclo omonimo di opere. In mostra un quadro ottenuto dalla scomposizione e riassemblaggio di parti della tavola armonica di un pianoforte. Interessante la texture dei differenti tipi di legno, con la variante di venature che si incontrano in una sorta di “paesaggio sonoro”: nel silenzio attiva una melodia nella mente di legge la parola Abracadabra, punzonata sul legno. Not so quiet, quel richiamo ancestrale al rituale attraverso un vocabolo inintelleggibile che affiora alle labbra, che lo sguardo cerca sulla superficie come vibrazione arcana e universale, quel suono che trasporta in un universo mistico, lontano lontano.
Per altre informazioni sulla mostra: galleriagiovannibonelli.com
Michela Ongaretti