Vincenzo Agnetti è stato una figura poliedrica e nevralgica nel contesto artistico internazionale degli anni Sessanta e Settanta. Dal 2014 è aperto al pubblico il suo archivio, in veste rinnovata, sede di approfondimenti ed esposizioni. Milano, via Machiavelli, civico 30. In una calda giornata mi apre le sue porte Germana, l’unica figlia dell’artista.

Germana ha gli occhi accesi del padre. Quando era ragazzina ha sempre avuto grande consuetudine coi suoi lavori, anche se nella vita si è occupata di tutt’altro, svolgendo la professione di psichiatra.
L’Archivio occupa gli ambienti dell’ex studio dell’artista, che si raggiunge attraversando un piccolo cortile. È uno spazio ampio e illuminato, luogo di approfondimenti, ma anche di esposizioni. Entrando, l’opera che cattura immediatamente la mia attenzione è uno dei suoi tanti e originalissimi paesaggi: un feltro bianco con al centro la trasposizione in lettere del suo rimando: “territorio”.
Ad osservarlo bene però, in alto, è privo di una sua parte, una specie di morso non lo rende intatto. Quando si è davanti ad un’opera di Vincenzo Agnetti non si ha subito un’immagine chiara nella mente, è il dubbio a prenderne posto. Non si tratta di mera vaghezza, ma di una confusione voluta e dovuta alla messa in discussione di un principio dato per certo, che l’artista spesso attua per mezzo di un paradosso. Mi piace pensare che in Agnetti la domanda sia in qualche modo la risposta, la salvezza da una logica impostaci.

Germana mi mostra subito delle pubblicazioni, sono i quaderni, mi dice e capisco che la genesi di questo luogo è legata ad essi.
Sono approfondimenti dell’Archivio che si basano sullo studio di singole tematiche affrontate dal padre e pubblicati di anno in anno a partire dal 2016. Sono scritti da lei con la cura del figlio Guido Barbato e con la collaborazione di altri autori. Sorrido al pensiero che l’affascinante storia di questo artista sia nata dalla scrittura e che grazie a questa, la sua opera continua a rimanere viva. È dunque necessario spendere qualche parola in merito.
La bramosia per la scrittura si palesa in Agnetti sin dal primo periodo, quello in cui anche se lavorava nel campo dell’automazione elettrica, si fece conoscere per mezzo di essenziali quanto profondi testi critici che fungevano da prefazioni alle esposizioni del tempo, pubblicate su «Azimuth». Lo scritto che già considera tra gli statements del suo percorso artistico è proprio quello dedicato al caro amico (anche se molto più giovane di lui), che spesso invitava a cena: Piero Manzoni. Nonostante fosse bambina, Germana ricorda ancora il montgomery blu appeso all’attaccapanni di quell’ospite fisso con cui si mangiava il risotto. L’operare da un punto di vista esterno, da osservatore accorto e scrupoloso, ad Agnetti però non bastava.

Cominciò una scrittura maniacale, densa di parole e pensieri spasmodici destinati a non esser più letti. Il loro titolo, Assenza, fu da preludio di tutta la sua ricerca.
In quelle fitte pagine e per tutta la carriera, la scrittura, è stata musa imprescindibile della sua arte concettualmente paradossale. Ne seguì la prima opera, un romanzo, che aprì la strada ad il fondamento delle sue produzioni: la critica del linguaggio. In ragione degli intenti artistici, da un punto di vista stilistico leggibile a posteriori, la sua produzione ha volto lo sguardo alla Poesia Concreta e Visiva, ma soprattutto all’Arte Concettuale, corrente di cui non ha mai voluto definirsi appartenente, anche se non ve n’è altra a cui avesse più guardato.

Abilità dell’artista pare infatti essere stata quella di sfuggire alle categorie ben delineate, “troppo precise per essere creative, forse anche troppo obbedienti per essere allettanti”.
La fuga dal pensiero ordinario, dal modo di vivere quotidiano e dal potere al vertice di un sistema di cui siamo inconsciamente complici, rappresentava l’unica e necessaria priorità. Poesia, filosofia, numeri e macchine gli permisero di creare un nuovo linguaggio. Un linguaggio paradossale che ha a priori l’indagine di quel che apparentemente non c’è e non si percepisce, l’assenza, il silenzio e il negativo, riuscendo a rivelare la vitalità del loro volto.

Chiedo a Germana di parlarmi del luogo in cui ci troviamo ora: come è nato l’Archivio?
«La sua origine ha a che fare con la storia della mia famiglia. I miei genitori si sono conosciuti grazie all’amore per il teatro, mio padre fu attor giovane al Piccolo Teatro di Giorgio Strehler nei primissimi anni dalla sua fondazione. Mia madre, Bruna Soletti, era una gallerista, ha iniziato da Francoise Lambert, per diventare subito dopo direttrice della galleria “L’uomo e l’arte” e infine ha dato vita ad una galleria che gestiva per conto suo.
Con mio padre aveva vissuto e partecipato attivamente al fermento della vita artistica milanese degli anni Settanta e a causa dalla sua prematura scomparsa (nel 1981, a soli cinquantaquattro anni) era diventata la custode di buona parte della sua produzione artistica, difendendone la memoria. Il lavoro di raccolta era cominciato prima, mio padre l’aveva già eletta depositaria delle sue opere, ma a seguito dell’accaduto aveva deciso di strutturare meglio il tutto dando vita all’archivio».

Quindi ancora oggi, la struttura dell’Archivio è la stessa di quella che aveva iniziato sua madre?
«No, l’Archivio è stato poi riformulato e nel 2014 abbiamo aperto questo spazio, la gestione è passata a me e a mio figlio Guido. Ho capito che il futuro era questo. È stato istituzionalizzato nel 2015 ed abbiamo aperto con una mostra che non è stata registrata. Dall’anno seguente abbiamo iniziato a pubblicare i quaderni di studio. Il primo è per lo più dedicato ad alcune rassegne, ma il discorso si è poi affinato dal secondo volume che si intitola Equivalenza – Meditazione e tratta del rapporto di Agnetti tra immagine e parola; qui è ricostruita la mostra che fece nel ’75 alla galleria di Ileana Sonnabend.

Il terzo è legato al tema del territorio, che attaglia all’ultima mostra realizzata in questo luogo ed il quarto è dedicato al fondamentale concetto del dimenticato a memoria: un’apparente contraddizione che tuttavia diviene per Agnetti verità inconfutabile e cifra del suo intero lavoro. Il quinto è dedicato al rapporto con la poesia e l’ultimo uscito è quello del 2021 dedicato alla Macchina drogata».
Li sfoglio e la mia attenzione cade su un’intervista riportata, è del ’72 di Mario Perazzi, “Non dipingo i miei quadri”. Qui, Agnetti sosteneva che chi guarda una sua opera, prima di recepire il messaggio, subisce un atto di violenza mentale che successivamente approfondisce per andare avanti e forse giungere a delle conclusioni.

Lei è d’accordo con questa affermazione di suo padre? Mi spiego. Se penso ad esempio a Ritratto di eroe che recita “Illuminato aiutato e ucciso dalle regole del gioco”, mi si forma nella mente un’idea, che ha una sua forza, certo, ma è comunque una sorta di immagine. Non è così?
«Crea un’immagine sì, ma come tutte le sue opere, è polisemica: parla di potere, di strumentalizzazione, di società utilitaristica e tanto altro. A Basilea, ad esempio, sarà esposto un paesaggio che dice “Poi scoppiò la quiete”, pensi a quanto possa essere una riflessione attuale e quindi quali immagini possa evocare. È un discorso che si estende anche alla Macchina drogata, che parla di critica del linguaggio, di critica alla mercificazione, ma anche all’ineluttabilità della stessa.

La macchina, la calcolatrice Divisumma che si ribella al suo ruolo di fare i conti per vendere della merce, finisce per creare opere d’arte. Non può comunque scappare dal suo destino “del fare”, ma lo muta. È un’operazione che, tra l’altro, anticipa l’intelligenza artificiale. Le persone potevano schicciarne i tasti e la combinazione delle operazioni formava delle parole senza senso. A volte invece lo avevano, ricordo che in una era uscito “Lupa Lupa Lupa”, ma ce ne sono state anche altre».

Secondo lei suo padre riusciva a parlare al pubblico? Era in qualche modo capito?
«Non sempre, ma non si può nemmeno pensare di “capire” o “non capire”, perché la comprensione ha diversi gradienti. Più un’opera è polisemica, più la sua cognizione non può essere totale e a volte è utile comprenderne anche solo una parte. Agnetti è un artista concettuale, ma non è “freddo”, non è come Kosuth, ricorre ad aspetti più emotivi, provenienti spesso dalla sua poesia. Ciò permette di coinvolgere il fruitore, gli parla».

È mai capitato, col lavoro svolto in Archivio, di voler dare nuova vita a qualcosa di suo?
«Certo che sì. Questa è proprio la storia del NEG. Si tratta di un pausofono, un registratore stereofonico modificato in modo da consentire al pubblico di udire le pause nella musica, o quelle della lettura di un testo. Nel 2012 la Brionvega ci segnala che non si trova più e noi iniziamo la ricerca. Dopo vani tentativi, decidiamo infine di ricostruirlo. La ricostruzione è stata affidata a mio figlio che ne ha ricercato i pezzi d’epoca.
Ci sono voluti due-tre anni per trovarli uguali. La sua ricostruzione è stata possibile grazie al brevetto e solo nel 2019 la macchina era pronta. In accordo con Luca Cerizza abbiamo iniziato a pensare di farlo suonare con altri musicisti e di esporlo. Così, infatti, è stato in occasione della nona edizione di ART CITY a Bologna. È stata un’operazione che ha riportato in vita un lavoro di mio padre».

Si è mai trovata nella condizione, invece, di voler continuare qualcosa di suo padre?
«C’è un episodio specifico da cui è scaturito un volume e che è anche una testimonianza importante del lavoro dell’Archivio. Mio padre aveva lasciato dei disegni esecutivi nella sua cassettiera e li scoprimmo solo dopo la sua morte, ma non sapevano cosa farcene. Si rifacevano al progetto di un’opera a quattro mani, insieme a Paolo Scheggi, che è rimasta incompiuta. Si intitola Il Tempio. La nascita dell’Eidos ed era stata concepita come un’operazione di “teatro statico”. Come è noto, nell’Eidos forma e idea sono un tutt’uno e quindi avevano pensato di realizzare un luogo sacro, un tempio appunto, contenitore di oggetti linguistici raffiguranti forme primarie del sociale, della soggettività e del potere, correlati alla ricerca artistica e teorica che i due artisti stavano allora conducendo. Il risultato doveva essere una scultura.

Quei disegni architettonici rimasero lì fino al lockdown, fin quando ho conosciuto Cosima Scheggi, architetto e figlia dell’artista fiorentino, che anche lei aveva trovato degli schizzi del padre in merito a questo lavoro.
Ci venne l’idea di proseguirlo: abbiamo messo insieme il materiale per capire come procedere e abbiamo così deciso di fare un’edizione pregiata, a cui ha collaborato l’Istituto Centrale per la Grafica di Roma, che tramite il processo della fotocalcografia è riuscito a rendere la riproduzione fedele e di grande qualità. Nel volume dall’omonimo titolo curato da Ilaria Bignotti e Bruno Corà (da noi pensato ed edito da Corraini), viene approfondita l’opera.
Cosima ha compreso e restituito il progetto in forma scritta, mentre io ne ho fatto la ricostruzione linguistica. Si trattava di una maquette, un modello di circa un metro di altezza che serviva per costruire il “teatro statico”. È Corà a metterlo a discorso, ricostruendo la dimensione contestuale che quest’opera avrebbe vissuto, la Bignotti invece ha fatto una ricognizione del rapporto tra i due artisti, che già avevano collaborato precedentemente. Ci abbiamo impiegato un anno».
Paolo Scheggi è scomparso dieci anni prima di suo padre, nel ’71. Significa che Agnetti ha chiuso il progetto in quel cassetto dal giorno della sua morte?

«È probabile, sì, non ha voluto continuarlo da solo e l’anno in questione era quello. Questo lavoro è stato un momento fondamentale per la storia di questo Archivio, perché ci ha spronato a creare una biografia artistica molto particolareggiata ed esaustiva con tutto quello che Agnetti e Scheggi hanno fatto negli anni che vanno dal ’68 al ’71».
Germana mi legge poi queste parole tratte dal volume e penso a quanto il concetto di “archivio” che implica la raccolta di ciò che è passato, coltiva invece in sé il germe del futuro:
«A questo punto la storia potrebbe essere finita con l’edizione della cartella e del libro che l’accompagna, ma forse rimane ancora l’attesa di una sua ricostruzione. Questo però sarebbe un altro capitolo».
Marta Russo
Per visitare l’archivio e avere ulteriori informazioni: http://www.vincenzoagnetti.com/