La coscienza del ventre è una mostra e un invito alla riflessione sul senso della vita, nell’interazione tra corpo e psiche. Tre artisti di generazioni diverse, che si esprimono prevalentemente con la scultura figurativa, formano con le loro opere un percorso circolare a Monza. Elia Di Nola, Mahnaz Ekhtiary e Marianna Gasperini da Villa Contemporanea fino al 13 aprile.
Noi non vediamo le cose come sono, le vediamo come siamo.
dal Talmud
La parte centrale del nostro corpo è sede di molti, quasi tutti gli organi interni, su di essa si riverberano anche le nostre emozioni. E’ un nucleo vitale dal cui funzionamento dipende la nostra stessa esistenza, sulla quale continuiamo ad interrogarci e il cui senso è per l’arte argomento d’ispirazione proficua. Questa mostra esplora più che mai la costruzione materiale, perché proprio attraverso il processo cresce la profondità delle sue tensioni: l’elaborazione di pensieri ed esperienze affiorano fino alla superficie dell’opera. Come complessità e fragilità sono insite alla fisiologia umana, così quei concetti danno forma alle opere di tre scultori che affidano i loro percorsi introspettivi a materie e discipline d’elezione.
Tra volumi e cavità i lavori scelti concentrano la loro attenzione sul ventre quale centro nevralgico di emozioni che sviluppano coscienza della trasformazione, inevitabile e necessaria. Le mani che hanno reso concrete visioni soggettive sentono un respiro interiore.
Tre mondi e tre modi di intendere la scultura, in rapporto alla propria poetica e alle tematiche che caratterizzano le singole ricerche, con la costante comune del rapporto tra la forma e le dinamiche psichiche che la generano, nell’osmosi simbolica e concreta tra storie personali e necessità di darne comunicazione. Anche lo stile e le tecniche affrontate interpretano queste visioni soggettive, nelle quali il corpo intreccia il suo simbolismo a sublimazioni autobiografiche.
Che il ventre biologico racchiuda meccanismi collegati sistematicamente all’intero organismo attraverso il controllo centrale del cervello è risaputo, mentre più di recente si è parlato della complessità di un microsistema autonomo: la scoperta dell’esistenza di miliardi di microrganismi che vivono dentro di noi dichiara come non siamo esseri unici, ma una moltitudine.
Secondo una rappresentazione simbolica il ventre come scrigno del molteplice è presente in antichissime culture.
Andando lontano nella Storia per immagini penso alla fantasiosa figura del dio Ganesh la cui pingue parte anatomica suggerisce infiniti universi, ma nell’arte dei nostri giorni, soprattutto quella in mostra, non può che assumere una densità inquieta, rispecchiando un coacervo talvolta inestricabile di pulsioni, paure o desideri, ricerca incessante di identità. Altro che raggiungere la beatitudine del sereno distacco nell’assimilare le esperienze: sono scritti nella carne scultorea i labirinti della psiche in un potenziale o irrisolto sviluppo. Sono storie dinamiche quelle di Ekhtiary, Di Nola e Gasperini, che restituiscono centralità sensibile al microcosmo interiore senza bisogno di rendere completa la figura. La conseguenza esistenziale esula dalla definizione univoca della scienza e intacca la visione monocentrica della ragione a favore dell’emozione tattile.
Non è un caso che la scultura di Elia Di Nola si presenti acefala.
Il corpo funziona come spia dell’inconscio nella promettente ricerca di un artista dedicato alla modellazione in argilla. Di Nola indaga il tormento di un’interminabile caccia al senso all’esistenza, e della fame di trascendenza che affatica i giorni umani. Una tensione che si deposita sulla superficie di altorilievi e sculture a tutto tondo, concentrandosi sulle parti più sensibili o su imperfezioni evidenziate dal colore di finitura. Ti scuote. Di fronte all’incompletezza o al difetto di evidenti nei, a tronchi mozzati o busti incompleti orfani dei propri arti, l’opera muove qualcosa nel profondo e spinge a mettere in discussione l’ordinario, o persino il bello, come possibilità di reale. Anzi, ciò che esagera maggiormente la carnalità mette in allarme e porta a comprendere che si stia parlando d’altro.
“Contenere il tutto, quello è il problema”: la condizione psichica, soggettiva, affiora ed entra in comunicazione con lo sguardo esterno, oggettivo, nella suggestione di forze opposte eppur conviventi.
Così la fragilità metaforizzata da un pallore livido, immobile, incontra nel rossore degli organi genitali un disperato slancio vitale, la consapevolezza di un dialogo complesso tra spirito e corpo. E’ l’inquietudine cromatica che pare rileggere nel volume il disegno di Egon Schiele, interprete di un’altra epoca di crisi, anche se lo scultore di oggi può quasi placare l’incertezza mescolando all’argilla un tocco di giocosità.
Non serve allo scopo la rappresentazione della testa su un corpo, anche se si è deciso di esporre un suo solitario esemplare in cera, un autoritratto che forse aiuterà a comprendere il mandante occulto di questi segnali, che il ventre è libero di amplificare nel lungo processo creativo, di cui si fa oracolo.
Al contrario di Elia Di Nola, che nella modellazione in argilla trova una mediazione tra assoluto e concreto, Marianna Gasperini sceglie una rappresentazione diretta attraverso l’uso del calco.
In particolare nelle opere in vetro la trasparenza diventa corazza a misura di ciò che contiene sia vulnerabilità che potenza generativa. Per la scultrice, che ha una pluriennale esperienza sperimentale con il materiale, è illuminante la contemplazione degli opposti di fragilità e durezza: un’epidermide può manifestare un senso di protezione come uno scudo o di tenerezza nell’invito al contatto con la sua levigatezza. Per questo i due corsetti sono da considerare opere gemelle, nate dal calco della stessa persona. Sul primo spuntano spine come armi sviluppate dall’interno, bucando la superficie per far emergere un sentimento pugnace, mentre sulla superficie del secondo la leggerezza delle piume, sempre inserite con incisione nel vetro, respirano così volatili che la carezza seduttiva pare senza peso, come se si fosse depositata al passaggio dell’osservatore. Uno allontana e l’altro richiama.
La dialettica tra visione esterna ed evoluzione interna della forma è presente anche nella scultura Bacino di vita, in ceramica con cottura a raku, rivelando la ragione nella predilezione del soggetto femminile.
Gioca a favore del simbolo ancora il calco, stavolta nascosto nella cavità. Da fuori un guscio simile ad una conchiglia suggerisce la preziosità di ciò che custodisce, l’impronta della potenza creativa, che è continuazione della vita. Una vagina come centro energetico attorno alla quale si sviluppa spazio vuoto, spazio di potenziale costruzione in simbiosi con il pieno del volume complessivo. Emanazione in un sistema di rispondenze, proprio come nell’azione del calco a determinare la forma piena è la sua parte mancante. A ben vedere la componente alla base della ceramica è la sabbia, che attinta dalla materia terrestre originaria può restituire una nuova creazione.
Per capire la scultura di Mahnaz Ekhtiary bisogna considerare il suo rapporto con la bidimensionalità della pittura.
Tutta l’opera dell’artista parte dal disegno come prima libera espressione di riflessioni profonde, che si espande nella terza dimensione secondo un progetto sul quale poi ritorna una narrazione grafica. In particolare poi l’uso del papier mâché permette la stratificazione controllata volta a creare volumi differenziabili in corso d’opera, e di giocare con figurazioni volutamente ambivalenti, aperte a diversi punti di vista che ne trasformano il senso. Studiando gli sviluppi della ricerca dalle prime mosse in Iran, e dal confronto con l’artista, si evince come sia la metamorfosi nel processo di autocoscienza il soggetto principale, non tanto il corpo, anche se quest’ultimo ne è testimone e metafora comprensibile a tutti.
Sul corpo si misura il limite dell’identità, dunque della libertà, per il regime islamico, così è naturale per gli artisti persiani espatriati o ancora residenti voler rivendicare la sua rappresentazione.
Ciò che per la politica è strumento di oppressione, diventa tramite, principale strumento di espressione. Ekhtiary usa il corpo dapprima come supporto nelle prime opere indossabili, poi nell’azione delle mani che giocano con il tessuto di un soprabito si interroga sull’essenza umana mediante la sua assenza, ed infine ritorna liberato dalla sua mimesi in scultura. Puro simbolo interiorizzato. Rivendicazione d’identità fiera e tuttavia in evoluzione. Sintomatico l’uso della carta solitamente stampata per l’informazione, presa da giornali in lingua italiana o persiana, la cui superficie disegnata si lega alla memoria, mentre il materiale espande all’interno spessori che alludono alla formazione dell’identità. Il futuro si costruisce in due ventri dello stesso essere umano, che abbraccia la coscienza del sé. Conosciuto, sconosciuto.
I piedi e le mani che troviamo in mostra sono un ulteriore invito all’azione; a mettersi in cammino verso la conoscenza di noi stessi, considerando l’esperienza percettiva solo un punto di partenza.
Michela Ongaretti
La Coscienza del ventre è visitabile da Villa Contemporanea in via Bergamo 20 a Monza. Da martedì al sabato dalle 15 alle 19 e su appuntamento.