Un sorriso dolce amaro è strappato all’osservatore dall’allestimento di due mostre inaugurate contemporaneamente. Daria Melnikova e Milan Panić sono due artiste molto diverse, per attitudine e per tipo di medium scelto, che si completano e bilanciano in un doppio percorso di mostra negli spazi di eastcontemporary.
La galleria, che si occupa di artisti provenienti dall’Europa dell’est, è stata una mia scoperta recente. Nei pressi di Piazzale Loreto spiccano le vetrine di due ambienti atipici per la zona, ed è stata forse questa alterità magnetica a richiamarmi verso due esposizioni sufficientemente esaurienti per comprendere il senso delle ricerche esplorate, ma non troppo affollate di opere, interamente fruibili su strada. Già dall’esterno degli ambienti ben si comprende il sentimento generale che le opere suggeriscono.
Ad un sorriso dolce-amaro può portare l’esperienza di visita nel suo insieme, accogliendo i diversi approcci delle due protagoniste come stimolo a guardare la realtà secondo un lirismo immaginativo ora delicato, per Un Momento di Daria Melnikova, ora graffiante, talvolta caustico, per Madness di Mila Panić.
Si parte sotto una luce chiara, gialla come l’ora meridiana per una tazza di caffè. Inoltrarsi nell’ambiente interamente dedicato alle installazioni scultoree di Daria Melnikova, operante nella capitale lettone, è saltellare tra quattro diversi momenti della giornata di un personaggio vivace, Jazzy Sunday, personificazione di un carattere e di un modo di intendere la vita. Nella noia della routine quotidiana è apparizione (solo nei dettagli), della spontaneità e dell’improvvisazione nella regolarità degli eventi.
Le avventure del signor Jazzy Sunday sono iniziate nel 2018 mediante composizioni di piccoli elementi che giocano con il citazionismo, viaggiando nel tempo, e la disconnessione prospettica, viaggiando nello spazio, costruendo opere somiglianti a carillon modernisti che suonano musica jazz. Stanze dalle colonne convesse, deformate da una lente divertita e divertente, pavimenti, tovaglie fuori posto e soprattutto tazzine da caffè. Sono tutti indizi di un puzzle dalle tessere scombinate tra le quali si insinuano dettagli del nostro personaggio. Sue parti per il tutto, scarpe per andare agli appuntamenti, occhi per scrutare altre narrazioni, forse un pettegolezzo dei vicini di tavolino al bar. Leggete come desiderate i racconti di queste sculture da parete, ma non dubitate che dal caos e dalla monotonia non si possa trovare una fantasiosa via di fuga, solo rimescolando reale e surreale.
Nello speciale allestimento, che inaugura l’area della galleria d’ora in poi project room sempre dedicata ad una singola ricerca site specific, troverete tre opere a parete e una installazione più grande a pavimento.
Nelle prime è ravvisabile un riferimento all’architettura antica e rinascimentale: “ le arcate ripetute, adottate dai Romani nel IV secolo a.C., che plasmano le città, attraversano le generazioni e sono raffigurate nel periodo metafisico dei dipinti di De Chirico, mi servono da sfondo” afferma l’artista. Oltre all’omaggio al contesto urbano italiano, fatto di stratificazioni storiche, l’ambientazione suggerisce una chiave di lettura attraverso la simbologia della soglia. Infatti la forma degli archi riconduce all’idea di forza e sostegno, ma anche di leggerezza ed apertura, e rappresenta un frequente passaggio attraverso le architetture che chi passeggia nei centri storici incontra spesso. Quelle strutture sono dunque, oggettivamente e nella poetica dell’artista, emblemi di un collegamento quotidiano nel tempo e nello spazio, che nella produzione artistica è soglia ulteriore tra realtà e mito o utopia.
Un mondo immaginario fatto di apparizioni, dove ciò che sembra più concreto, come un paio di scarpe, è al contempo attributo di ciò che vive solo nella finzione, confermata dalla deformazione prospettica accentuata dal motivo a scacchi.
Sempre con ironia, in un insieme dinamico di altri elementi decorativi per la casa come piatti e tovaglie floreali, si crea una tensione che fa pensare all’ansia prodotta dal caffè. In “un momento” ci troviamo di fronte ad attimi di sospensione dalla leggerezza materiale e narrativa, situazioni comuni in un universo parallelo, che sussurrano dolcemente piccole nevrosi del qui e ora. Ma restiamo sulla soglia. Con un sorriso quel sapore amaro e conosciuto ci riporta alla realtà dal mondo di sogno o fantasia.
Se Un Momento potrebbe essere accompagnata dalle note di un’improvvisazione jazz, tutt’altra musica risuonerebbe nell’ambiente dedicato a Madness, la mostra personale di Mila Panić.
Rock graffiante dalle tinte dark come un sorriso amaro sull’esistenza, ma pur sempre vitale e talvolta divertente. L’artista bosniaca, residente a Berlino ha tenuto nello spazio una delle sue esibizioni di standing comedy, Hurts so good, di cui alcune tematiche sono rappresentate nelle installazioni e nel lavoro fotografico.
Non c’è soluzione di continuità tra il lavoro propriamente artistico e quello comico: dal punto di vista dell’urgenza interiore che spinge ad esprimere ad evocare immagini e parole, ma chi visita una mostra generalmente lo fa in silenzio. E’ un rapporto indiretto quello che si genera tra il fruitore e la realizzazione dell’opera, tra pubblico e autore: quest’ultimo può trovare un riconoscimento e comprensione mediante l’effetto immediato della risata solo nella performance live. Ciò che riesce a strappare il lavoro materiale è un sorriso, che però è debitore dell’irriverenza delle parole. Per questo va considerata alla base di Madness la carica eversiva derivata da un discorso energico, considerando ciò che si vede in galleria come un prolungamento della performance.
Negli ultimi anni sono state incessanti le esibizioni pubbliche di Panić, da Berlino a New York, e Madness sperimenta la sedimentazione di pensieri dettati dalla spontaneità dell’improvvisazione su qualcosa che entra più lentamente nel campo emozionale di chi guarda.
Pare giusto pensare che un sorriso sia qualcosa di più meditativo, perché in quel tempo più lungo di osservazione si cercano risposte più universali, si lega il contenuto a qualcosa che è meno legato alla persona che espone un proprio punto di vista. Peccato non aver partecipato alla sua standing comedy dal vivo, eppure, da visitatrice seriale di mostre, posso dire che qui il battito accellerato di Mila è pulsante nella scelta di una luce rosa acceso, tra le installazioni e gli autoritratti sporcati dalle scritte. Il vantaggio dell’allestimento è quello di sentirsi a proprio agio con i propri tempi e di riflettere col filtro della propria sensibilità sulla familiarità dei temi, con ciò che mescola al grottesco un’intimità confessionale.
Qui la comicità si crea intorno al trauma e al ricordo difficile, e la sua rappresentazione può esserne l’antidoto, può guarire. Nell’ambiente al neon rosa ci si sente a proprio agio, al punto che immaginiamo in una zona intima, quasi raccolta. E’ lo zucchero sulla pillola, che da mandar giù è amara come lo humor nero che intinge le installazioni.
Ad esempio Südost Paket, una vera ruota di un tir adornato, come in una pubblicità da rivista patinata, di ninnoli, profumi, vizi come le sigarette. Lo strumento che muove il contrabbando attraverso confini doganali, e i suoi peccati, che scatena in noi sentimenti di disagio nel riconoscimento nell’azione fuorilegge, il senso della precarietà pericolosa, sempre che noi troviamo un’estetica divertente. “Un pezzo nella tradizione del ready-made, contemporaneamente assurdo e invito all’empatia e alla tessitura di nuovi racconti”. Un sorriso che fa stringere i denti, dopo la scoperta.
Ancora i neon nella loro decifrazione rivelano storie disturbanti, ancora una estetizzazione della forma che accoglie e avvicina per rivelare una sorpresa amara.
Un umorismo dark tra le parole, estratte da monologhi interiori, dettagli biografici e autopercezioni, esplode nei disegni e persiste nell’opera luminose. C’è una forte presenza di questo umorismo scalzante e rivelatorio in ogni opera esposta da east contemporary, a partire dal più innocente neon prima di brandirne il senso: While Other Kids Played with Legos, I Played with Legbones.
Soprattutto con l’autoritratto realizzato con autoscatto cresce Madness. Sul viso tempestato di parole si sviluppano frasi poetiche disturbanti, con sfumature di rabbia nate dall’esperienza di Panić, migrante dal Kosovo alla Germania. “Nella confortevole coperta della convenzione diasporica, di meccanismi stereotipati, troviamo il disagio della burocrazia e dell’ufficialità”, scrive John Blackwood nel testo che accompagna la mostra organizzata con il supporto di Berlin Senate Department for Culture and Social Cohesion.
E’ assurda la vita tra differenti paesi, con un potenziale umoristico latente che esplode in opere come If I Stop Smiling They Will See How Angry I Am.
Anche negli altri autoritratti la fissità delle inquadrature sul volto scatena una controparte “parlante” estremamente mobile e imprevedibile, aperta al senso della contraddizione. Dalla crasi tra due caratteri nasce il senso del coinvolgimento nell’opera. corroborante come un secchio d’acqua ghiacciata rovesciata sul pubblico, confuso, divertito, attivato persino senza performance.
Michela Ongaretti
Potete visitare Un momento e Madness da east-contemporary, in via Pecchio 3 a Milano. Fino al 19 aprile