Il corpo di Aneta Grzeszykowska era una bambola in silicone con cui giocava una bambina, tra le immagini che ci hanno maggiormente colpito all’ultima Biennale.
L’artista vive e lavora a Varsavia, portando avanti la sua ricerca principalmente attraverso il medium fotografico, cinematografico e scultoreo, ma lo strumento linguistico d’elezione dalle sue origini artistiche è sempre stato il corpo. In realtà è la sua negazione o frammentazione ad attivare la sua carica simbolica, a rimandare ad un altrove concettuale, a ciò che non si vede ma permane nella memoria. Attraverso la manipolazione del proprio corpo le norme sociali che circondano l’identità e la sua rappresentazione sono messe in discussione, dialogando idealmente con il lavoro di artiste femministe come Ana Mendieta, Cindy Sherman e Alina Szapocznikow.
Tema portante della ricerca di Grzeszykowska è il mistero dell’identità espresso dalla dialettica tra presenza e assenza, invisibilità o scomparsa, e il confronto del corpo e del pensiero con la non esistenza, sublimata e prolungata nell’opera d’arte.
In particolare la percezione dell’assenza, o di un organismo anomalo rispetto alla quotidianità riconduce alla possibilità di altre esistenze, ad un racconto di trasformazione della visione. All’interno di ogni opera azioni o gesti, parti anatomiche sfidano il rapporto tra naturale e artificiale, agiscono con la percezione fisica per esplorare una dimensione universale e intangibile. Oltre l’umano il paradigma dell’Essere umano.
Aneta, perché ha deciso di utilizzare proprio il suo corpo, da Album in poi e perchè nelle ultime opere quello di sua figlia?
The Album (2006) contiene fotografie dell’arco di tre decenni ed è una testimonianza di una certa epoca. La procedura di rimozione del personaggio principale facilita l’identificazione dello spettatore con la vita registrata nelle immagini. Quest’opera è diventata la specie del mio credo artistico, l’inizio della serie di lavori in cui, utilizzando vari mezzi stilistici, sviluppo un’idea specifica: l’idea di abbandonare il proprio corpo per illustrare la perdita di identità.
Dopo la realizzazione dell’Album, le persone mi hanno spesso chiesto quali fossero le reazioni della mia famiglia – in particolare di mia madre -. Ho trovato estremamente interessante il fatto che un gesto artistico conduca lo spettatore a digressioni psicologiche sulle relazioni dell’artista. Nella mia pratica artistica, spesso ripeto gesti compiuti in precedenza, da me stessa, ma anche da altri artisti, come nel caso di Untitled Film Stills (2006). Il mio studio è più mentale che fisico: da esso traggo le idee e gli oggetti utilizzati per realizzare le opere precedenti.
In seguito a Mama (2018), in cui mia figlia ha interagito con un modello in silicone di me stessa, cioè sua madre, è apparso un aspetto interessante dell’uso della relazione materna nell’arte. Ho pensato a cosa sarebbe successo se la zona privata, che è un territorio di esplorazione naturale per un artista, fosse stata esclusa dal suo lavoro. In questo modo, mi è venuta l’idea di ripetere l’Album, il cui personaggio principale, esistente a causa della sua mancanza, sarebbe stata mia figlia.
Il nuovo Album(2022) si svolge a ritroso, dall’undicesimo compleanno di mia figlia, al momento della sua nascita.
Paradossalmente, una tale cronologia impedisce allo spettatore di apprendere immediatamente il concetto. Anche avendo in mente l’Album precedente, non riesce a capire cosa sia stato rimosso esattamente questa volta. È solo verso la fine dell’album, e di fatto all’inizio della storia, che lo spettatore nota i dettagli che gli permettono di comprendere il mio gesto.
I corpi, soprattutto il mio, iniziano a essere messi in posa in modi sempre più strani, fino ad apparire mutilati e carenti. Poiché il bambino si separa naturalmente dalla madre man mano che cresce, l’atto di cancellare diventa sempre più evidente man mano che il tempo nell’Album va indietro. A mio avviso, Album è una storia d’amore, visualizzata dalla mancanza del suo oggetto principale.
Come si è evoluta la funzione espressiva e simbolica del corpo nel corso della sua carriera, attraverso le diverse discipline impiegate?
Il corpo e la sua identità sono materiale sufficiente per il mio lavoro. Li tratto come un mezzo a sé stante, proprio come la fotografia o il cinema. Penso alla mia arte in modo semplice e utilizzo soluzioni formali di base. Uso il mio corpo, le sue tracce, la sua immagine e la sua vita, perché sono le più accessibili e sempre a mia disposizione. In altre parole, ci sono ragioni tecniche per cui il mio lavoro parla di me. D’altra parte, nel mio lavoro sviluppo l’idea di allontanarmi dal corpo, quindi dalla sua identità ed esistenza. I corpi vengono successivamente: rimossi, sostituiti, sdoppiati, trasformati in oggetti e altri esseri; animali vivi e morti, sosia, bambole.
La perdita di identità appare nelle mie opere anche a un livello immediato. Infatti, io stessa non sono il loro soggetto. Il mio corpo e le sue conseguenze sono solo un esempio, un oggetto di studio con cui cerco di analizzare problemi universali. L’atteggiamento oggettivo nei confronti del proprio corpo rende l’identità, la storia e il corpo stesso neutri e trasparenti, permettendo agli spettatori di identificarsi.
In Love Book (2010), una raccolta di collage fotografici, compaiono diverse artiste la cui ricerca è consoderata femminista. Sente di continuare il loro discorso? Ci può spiegare se, e in che modo il suo lavoro possa dirsi femminista?
Credo che uno dei contesti più importanti del mio lavoro sia l’arte delle artiste postmoderne che hanno verificato lo status sociale del proprio corpo e la questione dell’identità culturale della donna. Nelle mie opere successive, come Love Book, faccio riferimento direttamente al lavoro di Hannah Wilke, Ana Mendieta e altre figure iconiche dell’arte contemporanea. Da citazioni e prestiti creo la mia storia. Sono particolarmente interessata alle artiste morte. Più precisamente, le cose che si sono lasciate alle spalle: immagini del corpo separate dai loro corpi. Ho giustapposto i resti della documentazione delle loro performance in un collage, con i miei autoritratti contemporanei.
In Love Book metto il mio corpo – o meglio le sue immagini – accanto ai corpi delle artiste in una relazione specifica di amore e violenza.
Tutte le artiste che ho citato in questo lavoro hanno usato un corpo nudo per esprimersi su questioni femministe. E io sto perpetrando su di loro una sorta di stupro. Uno stupro fisico, che si esprime nell’immagine dell’ “amore”; e uno stupro ideologico, perché hanno usato il loro corpo per uno scopo completamente diverso. Al contrario, io le oggettivo in un certo senso. Ma ciò non toglie che il mio gesto sia anche un atto femminista. Tuttavia, l’azione qui è perversa e radicale.
In un film è piuttosto chiara l’azione, sono i suoi movimenti a costruire un racconto, insomma il suo intervento è performativo. E’ corretto dire che anche la costruzione dell’immagine fissa è l’ultimo atto di un rituale e che i soggetti sono ritratti mentre interagiscono con i manufatti in precedenza creati, mettendo in scena una sorta di performance?
Mi interrogo sempre sulla scelta del mezzo per registrare il processo performativo, che in fondo è il mio lavoro. Di solito prendo in considerazione le fotografie e, naturalmente, il cinema. La prospettiva di mostrare l’intero processo sotto forma di documentazione cinematografica è allettante e sembrerebbe una scelta naturale. Tuttavia, la scelta della documentazione fotografica, ad esempio nel caso della serie Mama o Domestic Animals, mi permette di mantenere il controllo sull’immagine, anche attraverso la selezione delle foto della serie – mostro solo i fotogrammi che documentano i momenti che, secondo me, rappresentano meglio le idee del lavoro.
Limitare lo sguardo dello spettatore solo alle immagini che propongo, riguarda la questione della rappresentazione. Tuttavia, si tratta di rappresentazioni della memoria, messe a disposizione dello spettatore per essere ispezionate, proiettando significati su di sè.
Nel 2014 ho presentato una serie di foto intitolata Selfie, con oggetti che sono frammenti del corpo umano preparati con pelle animale. Il viso, le mani, il seno e la pancia sono stati preparati da me a partire da resti animali, in particolare da pelle di maiale, ingannevolmente simile a quella umana. Le foto della serie mostrano gli oggetti nel momento della loro rifinitura finale, durante le procedure cosmetiche che prevedono l’applicazione del rossetto sulle labbra o del rouge sulle guance. Gli oggetti sono stati collocati su sfondi di pelle colorata, adeguatamente illuminati e da una prospettiva specifica.
La procedura di mostrare fotografie invece di sculture fisiche o di un film che mostra la loro decomposizione, è stata dettata dal desiderio di assumere il controllo della loro rappresentazione.
Le fotografie hanno permesso di conservare l’immagine degli oggetti appena prima della decomposizione, catturando il loro inquietante stato di morte, ma con un aspetto ancora vivo. Il controllo dell’immagine della propria opera rimandava di fatto a uno degli aspetti più importanti della modernità mediata dai media: la rappresentazione, da cui il titolo Selfie che interpreta le opere nei termini di un autoritratto contemporaneo.
In un’intervista rilasciata ad un magazine italiano, a farle le domande è Maurizio Cattelan, che parla di “ sogno disturbante” scatenato dal progetto Album (2005-2006). Ancora, a proposito di Selfie sul sito di Art Basel leggo “una svolta radicale nella direzione del grottesco”. Come si pone di fronte a queste affermazioni…le sue immagini sono volutamente inquietanti o non è stata compresa?
Considero l’arte come una sorta di parallelo alla vita – una linea che le corre accanto, come la sua immagine speculare, l’edera, che si arrampica su un grande albero. Le performance che produco danno allo spettatore l’opportunità di provare e sperimentare situazioni che un giorno accadranno, ma che ora sono come represse o dimenticate. Siamo al sicuro avvolti nello spazio dell’arte, anche quando tocchiamo il tema della nostra mortalità. Possiamo sperimentare la paura senza paura, una sorta di catarsi esistenziale.
Se le mie opere venissero paragonate ai generi cinematografici, credo che si tratterebbe di una commedia-dramma: nelle mie opere gli elementi spaventosi si intrecciano con quelli comici, proprio come nella vita reale.
Tornando a Selfie. Trovo molto interessante che le parti ricostruite della sua anatomia siano “in progress”, spesso accanto alle sue mani reali. Come mai porta l’attenzione sul processo realizzativo?
Gli oggetti scultorei, fotografati su sfondi di pelle, realizzati con pelle di maiale, rappresentano frammenti del mio corpo – viso, testa, seni, pancia, mani. Sono stati immortalati nel momento della cura finale, della rifinitura e della presentazione – nell’inquadratura. Oltre a loro, compaiono anche le mie mani. La carne animale, già morta ma dall’aspetto ancora vivo, viene qui trasformata in un corpo umano, e così la vera morte rimane nascosta.
Il cadavere umano, estetizzato, è stato presentato solo in modo frammentario: le unghie o le labbra dipinte evocano il ricordo del corpo umano. Allo stesso tempo, la divisione del corpo lascia un’impressione incompleta. Non è chiaro se i singoli elementi siano stati creati come risultato della creazione o della distruzione / divisione in parti o viceversa ; sono frammenti preparati per essere messi insieme.
Paradossalmente, la privazione della forma complessiva degli oggetti ne enfatizza la fragilità e l’impermanenza, suscitando un’ansia esistenziale indefinita. In fondo, la serie Selfie è anche una sorta di performance che mostra il processo di rifinitura finale delle sculture. Gli aspetti tecnici che compaiono nelle mie opere sono per me uno spazio molto importante per creare significati.
Il breve film Nero (2007), visto sul sito della cineteca del Museo di Arte Moderna di Varsavia, mostra chiari riferimenti al Surrealismo. Ci sono state altre esperienze d’arte, anche lontane nel tempo, che hanno segnato o influenzato il tuo percorso?
L’arte di Alina Szapocznikow mi commuove molto. Ad esempio mi viene in mente una sua opera intitolata Photosculpture 1973, che raffigura sculture di gomme da masticare formate dai denti dell’artista e tirate fuori dalla sua bocca. Fragili e carnali, le sculture di Szapocznikow sono allo stesso tempo egocentriche e intellettualmente potenti. I segni dei denti sulle gomme da masticare provocano l’immaginazione dello spettatore: vediamo l’artista estrarre dalla bocca un piccolo oggetto flessibile, esaminarlo e metterlo sul tavolo per documentarlo. L’aspetto della scala è interessante in questo caso: a contatto con l’oggetto, Szapocznikow appare fisicamente come un gigante, il che ci permette di considerare le sue sculture anche in termini di ego.
La libertà e la sicurezza di sé autorizzano l’artista a pensare ai suoi denti come a degli strumenti.
La mancanza di controllo sul processo stesso di formazione delle sculture non aveva importanza, perché di fatto la loro forma finale era il risultato del concetto. Una situazione simile si verifica nel mio ultimo lavoro, in cui ho deciso di dare da mangiare ai cani con le mie sculture. Gli oggetti, che sono in realtà repliche delle sculture di pelle della serie Selfie, sono sottoposti al processo di alimentazione degli animali, per cui acquistano la forma che è il risultato di questo processo. Ciascuna delle loro forme è corretta perché lo strumento fisiologico che le modella (i denti del cane) è anche uno strumento concettuale.
È interessante notare che Szapocznikow non ha presentato i suoi oggetti in prima persona, ma solo foto che li ritraggono in un contesto astratto e non in scala. Sono incollati al piano del tavolo che forma l’orizzonte e fotografati dalla giusta prospettiva, permettendo di staccarsi dalla loro piccola scala. Fanno venire in mente i monumenti, il che è ulteriormente enfatizzato dalla documentazione in bianco e nero.
Su Skinformer e Skinformer 7, esposti da Raster Gallery, non ci sono più volti, ma solo pelle e buchi. Cosa c’è dietro queste maschere di carnevale e fetish?
Come ho già detto, la mancanza – nel caso di queste opere rappresentata dai buchi – è un elemento importante per definire il corpo nel mio lavoro. Questo motivo è già apparso nell’opera Album o Negative Book, i miei film ruotano attorno ad esso – è apparso letteralmente nel film intitolato Holes, 2015. Ritorna anche formalmente negli skinformer.
Ci vuoi parlare della mostra da poco conclusa presso Lyles and King in New York?
Gli oggetti che raffigurano il mio volto, realizzati nel 2014 per la serie Selfie, sono stati da me riutilizzati nel 2022. Una serie di foto, scattate al confine tra civiltà e natura, presenta una relazione personale di animali che indossano volti umani sulle loro teste, nello specifico – il mio volto moltiplicato. Il lavoro è stato esposto per la prima volta quest’anno presso la galleria Lyles & King di New York, con la quale collaboro dal 2015.
Sono sempre stata affascinata da un semplice paradosso: in qualsiasi interazione con l’ambiente, siamo davvero gli unici a non vedere noi stessi.
La nostra visione soggettiva della realtà può quindi essere confermata solo da qualcuno/qualcosa dall’esterno. In Domestic Animals, le maschere indossate dai cani, come già nella serie Mama, diventano specchi che riflettono l’esistenza di un’altra persona. In questo lavoro, gli animali che sono membri della famiglia diventano partecipanti alla narrazione e creatori di idee. La mia identità è confermata dal loro sguardo, come se il sentimento soggettivo non fosse sufficiente a dimostrarne l’esistenza.
In Domestic Animals è fondamentale per me anche l’aspetto dell’inconscio, descritto in precedenza nel contesto della serie Mama, in cui le attività svolte da mia figlia, a seconda del punto di vista, diventavano divertimento o performance. Nel caso di Domestic Animals, questo doppio status di partecipazione fa un ulteriore passo avanti: i cani, completamente inconsapevoli di ciò a cui stanno partecipando, creano arte mettendo in scena una situazione percepita dallo spettatore come metaforica. La loro partecipazione inconsapevole è a mio avviso un’allegoria della nostra esistenza, basata su un fraintendimento del suo significato – si spera – esistente.
Intervista a cura di Michela Ongaretti
Per poter vedere dal vivo i lavori dell’artista , vi invitiamo a consultare rastergallery.com e lylesandking.com
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The Body of Absence. Nine questions about Aneta Grzeszykowska’s art
Aneta Grzeszykowska’s body was a silicone doll a little girl played with, among the images that most impressed us at the last Biennale.
She lives and works in Warsaw, carrying out her research mainly through the medium of photography, film and sculpture, but the linguistic tool chosen by her artistic origins has always been the body. In fact it is its negation or fragmentation that activates its symbolic charge, that refers to a conceptual elsewhere, to what is unseen but lingers in memory. Through the manipulation of one’s body the social norms surrounding identity and its representation are questioned, ideally dialoguing with the work of feminist artists such as Ana Mendieta, Cindy Sherman and Alina Szapocznikow.
The main theme of Grzeszykowska’s research is the mystery of identity expressed by the dialectic between presence and absence, invisibility or disappearance, and the confrontation of the body and of thought with the non-existence, sublimated and prolonged in the work of art.
Especially the perception of absence, or of an abnormal organism in relation to everyday life leads back to the possibility of other existences, to a tale of transforming vision. Within each work actions or gestures, anatomical parts challenge the relationship between natural and artificial, act with physical perception to explore universal and intangible dimensions. Beyond the human the paradigm of Human Being.
Why did you decide to use your own body, from Album onwards, and in the latest works that of your daughter?
The Album (2006) contains photographs from the period of 3 decades and is a testimony of a certain era. The procedure of removing the main character makes it easier for viewers to identify with the life recorded in the pictures. This work became the kind of my artistic creed, the beginning of the series of works in which, using various stylistic means, I develop a specific idea – the idea of leaving my own body in order to illustrate the loss of identity.
After the making of the Album, people often asked me about the reactions of my family – especially my mother – I found it extremely interesting that an artistic gesture leads the viewer to psychological digressions about artist’s relationships. In my artistic practice, I often repeat gestures made earlier, by myself, but also by other artists, as in the case of Untitled Film Stills (2006). My studio is more mental than physical – I draw from it the ideas and the objects used to realize earlier works.
After the work Mama (2018) in which my daughter interacted with a silicone model of myself, i.e. her mother, an interesting aspect of the use of the maternal relationship in art appeared. I thought what would happen if the private zone, which is a natural exploration territory for an artist, was excluded from his work. In this way, I came to the idea of repeating the Album, whose main character, existing because of its lack, would be my daughter.
The new Album(2022) runs backwards, from my daughter’s 11th birthday, to the moment she was born.
Paradoxically, such a chronology prevents the viewer from immediately learning the concept. Even with the previous Album in mind, he can’t figure out what exactly was removed this time. It is only towards the end of the album, and in fact the beginning of the story, that the viewer notices the details that make him possible to understand my gesture.
Bodies, especially mine, begin to be posed in increasingly strange ways, until they appear mutilated and deficient. Because the child naturally separates from its mother as it grows up, the act of erasing becomes more and more apparent as the time in the Album goes back. In my opinion, Album is a story about love, visualized by the lack of its main object.
How did your research on the body start from and how did its expressive and symbolic function evolve over the course of your career, through the many disciplines employed?
The body and its identity are sufficient material for me to use at work. I treat them as a medium in itself, just like photography or film. I think about my art in a simple way and use basic formal solutions. I use my own body, its traces, image and life, because they are the most accessible and always at my disposal. In other words – there are technical reasons why my work is about me.
On the other hand, in my work I develop the idea of moving away from the body, thus from its identity and existence. They are successively: removed, replaced, split, turned into objects and other beings; dead and alive animals, doppelgangers, dolls.
The loss of identity appears in my works also on a completely fundamental level. Indeed, I am not their subject myself. My body and its consequences are just an example here, an object of study with which I try to analyze universal problems. The objective attitude towards one’s own body makes its identity, history and the body itself neutral and transparent, what allows the viewers to identify.
In “Love Book” (2010) we see several artists whose research is considered feminist. Do you think you are continuing their discourse? Can you explain if, and how, your work can be called feminist?
I think that one of the most important contexts of my work is the art of postmodern female artists who have verified the social status of their own bodies and the issue of the cultural identity of a woman. In my subsequent works, such as Love Book, I refer directly to the work of Hannah Wilke, Ana Mendieta and other iconic figures of contemporary art. From quotes and borrowings I create my own story. I’m particulary interested in dead female artists. More precisely – things wchich they left behind: images of the body separated from their bodies. I juxtapose the remnants of their performance documentation in a collage, with my own contemporary self-portraits.
In Love Book I place my own body – or rather its images – next to the bodies of female artists in a specific relationship of love and violence. All the female artists I have mentioned in this work used a naked body to express themselves on feminist issues. And I am perpetrating a kind of rape on them. Physical rape, which is expressed in the image of ‘love’; and ideological rape, because they used their bodies for an entirely different purpose. In contrast, I objectify them in a way. But that does not alter the fact that my gesture is also a feminist act. However, the action here is perverse and radical.
What makes a film is the action. A story is built by your gestures, your intervention is thoroughly performative. Is it correct to say that even the construction of a still picture, a photo, is the last act of a ritual and that the subjects portrayed while interacting with previously created artifacts, staging a kind of performance?
I always wonder about the choice of medium to record the performative process, which is, after all, my works. I usually consider photographs and, of course, film. The prospect of showing the entire process in the form of film documentation is tempting and would seem a natural choice. However, the choice of photographic documentation, for example in the case of the Mama or Domestic Animals series, allows me to maintain control over the image, also through the selection of photos in the series – I only show frames documenting the moments that, in my opinion, best represent the ideas of the work.
Restricting the viewer’s insight only to the images I propose, concerns the issue of representation. However, it is about representations of memory, made available to the viewer for inspection – projecting meanings on him.
In 2014, I presented a series of photos entitled Selfie, with objects that are fragments of the human body prepared from animal skin. The face, hands, breasts and belly were prepared by me from animal remains, specifically from pig skin, which is deceptively similar to human skin. The photos in the series show the objects at the moment of their final finishing – during cosmetic procedures involving the application of lipstick on the lips or rouge on the cheeks. The objects were placed on colorful leather backgrounds, properly lit and from a specific perspective.
The procedure of showing photographs instead of physical sculptures or a film showing their decomposition, was dictated by the desire to take control over their representation. The photographs allowed to preserve the image of the objects just before decomposition, capturing their disturbing status of being dead, but still looking alive.
Controlling the image of one’s own work de facto referred to one of the most important aspects of media-mediated modernity – representation, hence the title Selfie interpreting the works in terms of a contemporary self-portrait.
In an interview with an Italian magazine, Maurizio Cattelan talks about the “disturbing dream” unleashed by the Album project (2005-2006). Speaking of Selfie, on the Art Basel website I read “a radical shift in the direction of the grotesque”. How do you cope with these statements… are your images deliberately unsettling or misunderstood?
I treat art as a kind of parallel to life – a line running next to it, like its mirror image, ivy, climbing up a big tree. The performances that I produce, give the viewer the opportunity to try out and experience situations that will happen someday, but are now as if repressed or forgotten. We are safely wrapped in the space of art – even when we touch on the topic of our own mortality. We can experience fear without fear, what is a kind of existential catharsis.
If my works were compared to film genres, I think it would be a comedy-drama – the scary elements are intertwined with the comical in my works, just like in real life.
Back to Selfie. I find it very interesting that the reconstructed parts of your anatomy are “in progress”, often next to your real hands. Why do you draw attention to the implementation process?
The sculptural objects, photographed on leather backgrounds, made of pig skin, represent fragments of my body – face, head, breasts, belly, hands. They were immortalized at the moment of final care, finishing and presenting – in the frame, apart from them, my hands also appear. The already dead but still living-looking animal flesh is transformed into a human body here, and thus the true death remains hidden.
The dead, aesthetized human corpse has been presented only fragmentarily – painted nails or lips evoke the memory of the human body. At the same time, the division of the body leaves a strange understatement – it is not clear whether the individual elements were created as a result of creation or destruction / division into parts or vice versa – they are fragments prepared to be put together.
Paradoxically, the deprivation of the objects’ overall form emphasizes their fragility and impermanence, arousing indefinite existential anxiety. After all, the Selfie series is also a kind of performance showing the process of final finishing of sculptures. The technical aspects appearing in my works are a very important space for me to create meanings.
The short film Black (2007), seen on the website of the film library of the Museum of Modern Art in Warsaw, shows clear references to Surrealism. Have there been other art experiences, even distant in time, that have marked or influenced your path?
I am very moved by the art of Alina Szapocznikow and at this point I could recall one of her works entitled Photosculpture 1973, depicting chewing gum sculptures formed by the artist’s teeth and pulled out of her mouth.
Fragile and carnal, Szapocznikow’s sculptures are both egocentric and intellectually powerful. Teeth marks on chewing gum provoke the viewer’s imagination – we see the artist pulling a small flexible object from her mouth, examining it and putting it on the table top for documentation. The aspect of scale is interesting here – in contact with the object, Szapocznikow physically appears as a giant, which allows us to consider Her sculptures also in terms of the ego.
Freedom and self-confidence entitles the artist to think of her teeth as tools.
The lack of control over the very process of forming the sculptures did not matter, because in fact their final form was the resultant of the concept. A similar situation occurs in my latest work, in which I decided to feed the dogs with my sculptures. Objects, which are in fact replicas of the skin sculptures from the Selfie series, are subjected to the process of feeding animals, as a result of which they gain the form that is the result of this process. Each of their shapes is correct because the physiological tool that shapes them (the dog’s teeth) is also a conceptual tool.
Interestingly, Szapocznikow also did not present her objects themselves – only photos showing them in an abstract context detached from scale. They are glued to the table top forming the horizon, and photographed from the right perspective, allowing you to break away from their small scale. They bring to mind monuments, which is additionally emphasized by black and white documentation.
On Skinformer and Skinformer 7, seen at Raster Gallery, there are no more faces left, only leather and holes. What’s behind these carnival and fetish masks?
As I mentioned before, lack – in the case of these works represented by holes – is an important element of defining the body in my work. This motif has already appeared in the work Album or Negative Book, my films revolve around it – it literally appeared in the film entitled Holes, 2015. It also returns formally in skinformers.
Could you tell us about your last exhibition at Lyles and King in New York?
Objects depicting my face, made in 2014 for the Selfie series, were reused by me in 2022. A series of photos, taken on the borderline of civilization and nature, presents a personal relationship of animals wearing human faces on their heads, specifically – my multiplied face. The work was shown for the first time this year at the Lyles & King gallery in New York, with which I have been collaborating since 2015.
I have always been fascinated by a simple paradox – in any interaction with the environment, we are really the only ones who do not see ourselves.
Our subjective view of reality can therefore only be confirmed by someone/something from the outside. In Domestic Animals, the masks worn by dogs, like earlier in the Mama series, become mirrors that reflect the existence of another person. In this work, animals that are members of the family became participants in the narrative and creators of ideas. My identity is confirmed by their gaze, as if subjective feeling wasn’t enough to prove its existence.
In Domestic Animals, the aspect of the unconscious is also essential for me, described earlier in the context of the Mama series, in which the activities performed by my daughter, depending on the point of view, became fun or performance. In the case of Domestic Animals, this dual status of participation goes a step further – dogs, completely unaware of what they are participating in, create art by performing a situation perceived by the viewer as metaphorical. Their unconscious participation is in my opinion an allegory of our existence, based on a misunderstanding of its meaning – hopefully – existing.