Identità-mutamento è il binomio su cui si interroga l’omonima mostra dedicata a quattro affascinanti ricerche artistiche provenienti dal continente africano. La mostra in corso a Palazzo da Mosto di Reggio Emilia fino al 24 novembre presenta opere di Laetitia Ky, Dan Halter, Franklyn Dzingai, Ikeorah Chinsom Chi-Fada, in un percorso che evidenzia la cifra stilistica personale in relazione al contesto socio-culturale o politico.
Flag No Flags Contemporary Art ha prodotto Identità/mutamento a seguito di una pluriennale ricerca sulla risposta artistica a fenomeni globali come la decolonizzazione e le inarrestabili migrazioni. Stanno caratterizzando gli ultimi decenni e come osserva il curatore della mostra Giovanni Nicolini sono “delocazioni fisiche e culturali, che coinvolgono tanti individui nel tempo contemporaneo”. L’Africa non è l’unico continente a custodire storie legate a quei processi, ma ha senz’altro una centralità nella loro diversificazione storica e territoriale.
Con mia grande fortuna ho potuto inoltrarmi tra le sale accompagnata dalla Responsabile Eventi di Flag no Flags, Paola Rubertelli, che mi ha raccontato la genesi del progetto espositivo.
Nel 2011 e nel 2012 la relazione con la Fondazione Sindika Dokolo ha portato alla rassegna di videoarte FLUXUS. Fondamentale è stata anche la collaborazione con Daniela Palazzoli, vista la sua ampia conoscenza del tema, con la quale si è poi mantenuto negli anni un rapporto di stima e desiderio di una nuova avventura espositiva. Ci sono voluti due anni per delineare Identità/Mutamento ma è ben presto emerso un intento imprescindibile: non doveva essere la notorietà a guidare la selezione, avrebbe incluso artisti afrodiscendenti, ma la reale presenza nella vita di ogni giorno in Africa. Si voleva mostrare il lavoro di chi continua a creare nel territorio e vivere sulla propria pelle le tematiche che affronta.
A quel punto, su suggerimento di Palazzoli, il sostegno maggiore è arrivato dalla galleria Osart di MIlano, che nel tempo ha sviluppato una grande competenza supportata da viaggi e dalla partecipazione a Investec Cape Town Art Fair. La rosa di artisti completa di Laetitia Ky grazie al prestito a LIS10 Gallery. La rivendicazione di un’ identità nella dichiarazione o nell’invito ad un mutamento tocca tutte le quattro ricerche creando un dialogo aperto tra poetiche, ma la mostra funziona bene anche sul diverso livello di lettura della differenziazione disciplinare. In un batter d’occhio la prima sala rileva in nuce la ricchezza dei diversi linguaggi comunque uniti da una vocazione al “trarre l’opera nell’utilizzo di qualsiasi materiale offra l’ambiente circostante”. La sostanza del quotidiano immaginata, reinventata, destrutturata, sentita, come espressione soggettiva di visioni sul mondo.
Iniziamo il nostro tour guidato dalle opere di Dan Halter, l’artista più “anziano” del gruppo, nato nel 1977 in Zimbawe ma attualmente operante in Sudafrica.
Non è superfluo dire che la sua pelle è bianca, perché fa comprendere come l’appartenenza africana porti con sé problematiche storiche e politiche che superano la mera questione razziale. Halter ha alle spalle un background culturale denso che passa all’arte secondo una stratificazione di contenuti e concetti tali da necessitare una preparazione all’incontro visivo. La sua ricercatezza estetica unisce ai riferimenti alla situazione attuale una forte abilità manuale. Secondo un ulteriore livello di lettura attraverso una materia che si scopre metafora, insiste sui processi per evidenziare il ruolo dell’umano nella trasformazione della realtà, denunciando spesso la mistificazione della sua rappresentazione.
Ad esempio la prima opera che incontriamo usa la tecnica tradizionale della tessitura per costruire una Mappa del Mondo ( 2019) fatta di borse di plastica, acquistate nelle zone di partenza dai migranti. Materiale di recupero “eloquente”, che è diventato iconico dello stile di Halter, il tessuto e’ stato scelto in base a due texture differenti: consunta solo in corrispondenza delle aree del mondo interessate alle grandi migrazioni, che stanno perdendo prezioso capitale umano. Questo planisfero non rispetta le dimensioni reale delle nazioni, come vediamo la Cina è enorme, perché rappresenta il più grande colonizzatore economico d’oggi, anche e soprattutto in Africa.
Identità/mutamento presenta esemplari da altre serie di lavori. Forse l’operazione più complessa è quella che sostituisce l’intreccio di fili all’intreccio di frasi da testi emblematici: funzionali a creare una connessione storica e simbolica tra i temi trattati nell’opera e l’argomento dei volumi.
Nell’azione di smembrare e ricomporre parole secondo un disegno, nella loro ritrovata leggibilità, scopriamo in quei classici una sorta di preveggenza. Avviene ad esempio che sulla superficie ingrandita del dollaro, simbolo del capitalismo però con la scritta United States of Africa, si trovi un capitolo di Cuore di tenebra di Conrad, il primo romanzo scritto da un bianco sul colonialismo e sul razzismo. Fast Track Land Reform si compone invece di nomi e numeri: l’elenco dei coloni dello Zimbawe a cui è stato confiscato il terreno a seguito della riforma agraria di Mugabe, mentre le cifre a fianco corrispondono ai lotti di terreno. Su tutto una scritta a punto croce con i colori panafricani, I had a farm in Africa, nucleo del problema e incipit del romanzo La mia Africa di Karen Blixen.
E’ una delle frasi lapidarie che come mi diceva Rubertelli arrivano dopo l’osservazione dei dettagli, “veramente come una pugnalata allo stomaco”. Proprio come accade secondo una ulteriore forma espressiva di Halter, sempre intrecciata ma stavolta con del tessuto stampato a pattern della bandiera sudafricana. Le lettere che sono sovrascritte nello stesso materiale si leggono con un certo sforzo seguendo la luce per rivelare un’amara verità: “The past i s never dead, it is not even past”. In mostra anche una terza tipologia di lavoro di Dan Halter, nella quale le sue trame prendono forme scultoree.Si intitola The drowned world triforce ragiona con il romanzo di fantascienza degli anni ‘70 di Ballard. Non ve ne parlo qui, sperando di avervi invogliato a visitare Identità/Mutamento.
Sulla parete opposta troviamo Laetitia Key, giovanissima e già internazionalmente nota esponente della Costa d’Avorio.
La sua fotografia attrae lo spettatore con un linguaggio immediato, dagli accattivanti colori pop, portando verso tematiche d’impegno sociale e politico, spesso sulla condizione femminile. Sono tutti autoritratti dalla costruzione formale essenziale, nei quali spicca l’acconciatura. Non si tratta di un lavoro di postproduzione ma vere e proprie sculture capillari. La storia dell’artista è raccontata con garbata semplicità in un libro: sua ambizione era quella di diventare attrice così inizia a pubblicare sui social diversi autoritratti, con l’intento di raccogliere denaro per i corsi di recitazione. Il successo delle immagini è eclatante, così Ky inizia ad immaginare un loro diverso uso, la possibilità di veicolare ad esse tematiche che le stanno a cuore.
Quei capelli afro testimoniano e affrontano ora le fragilità che il colonialismo ha lasciato nelle persone. Modelli estetici e comportamentali sono stati imposti nei decenni, anche attraverso il corpo. Ad esempio le bambine sono quasi sempre costrette da insegnanti e genitori a rasarsi il capo quando iniziano le scuole elementari, perché i loro capelli sono considerati di difficile gestione e un elemento di distrazione dallo studio. Nei decenni le donne africane si sono confrontate con modelli importati dall’Occidente, si pensi alle note bambole dalla liscia chioma, cercando di aderirvi. Ed ecco che défrissage e altri trattamenti hanno portato alla caduta a ciocche dei capelli.
Proprio da qualcosa di molto femminile si sviluppa un’arte di rivendicazione: quella caratteristica fisica avversata, negata da parametri impositivi è riconosciuta quale segno identitario distintivo, diventa un mezzo di comunicazione. Uno strumento originario potente per affrontare tematiche universali.
Le sculture capillari di Laetitia Ky sono un atto di riappropriazione di identità e mutamento di prospettiva. Sono così potenti e iconiche da esaltare una comunità superandone i confini, diffondendo con un’idea di bellezza messaggi anche drammatici: dalla denuncia del problema delle mutilazioni genitali femminili a tabu della femminilità come le mestruazioni, dalla disuguaglianza tra uomo e donna ad altre problematiche sociali. D’altronde ritrovare l’aspetto gioioso e creativo di una tradizione culturale è un passaggio affascinante delle giovani generazioni postcoloniali.
Le opere di nell’ultima sala esemplificano due serie di sculture. Qui vediamo una Medusa, interessante perché nulla ha della concezione del mostruoso della mitologia classica; piuttosto si riallaccia ad visione totemica degli animali d’Africa, sacri della cultura originaria. L’opera fa infatti parte di uno shooting in riva ad un fiume: in testa un caimano, una leonessa e altre bestie della Costa d’Avorio. Accanto troviamo una delle immagini più iconiche e di elegante sintesi. La scultura rappresenta la geografia dell’Africa, con la sapiente annessione grazie al fil di ferro del Madagascar. La texture ruvida del muro chiaro contro cui si staglia il busto dell’artista fasciato da una banda di tessuto colorato che ricorda subito tutto il mondo dell’artigianato del continente, un ulteriore tratto distintivo di continuità storica, tutto nella soffice capigliatura nera.
D’impostazione fortemente narrativa è la pittura di Ikeorah Chimson Chi-Fada, autore nigeriano dall’impressionante dominio disciplinare per la giovane età (2000).
Sulla tela si dipanano storie che paiono sospese, incarnate da poche figure, cariche di simbolismo e studiate attraverso una composizione coloristica, luministica e spaziale perfettamente bilanciata. Da quell’atmosfera emerge anche la sua storia personale, fatta di ambizione alla ricerca artistica nella resistenza alle difficoltà. Ancora ragazzino inizia a disegnare fumetti con gli amici coetanei, per venderli in strada al fine di comprare materiale artistico. I genitori però ostacolano questa attività per non fargli trascurare la scuola, fino ad impedirglielo. Ikeorah ricomincerà solo a seguito di un evento traumatico: prende fuoco il villaggio dove vive con la famiglia e sua sorella sopravvive restando gravemente ustionata. Da allora la pratica artistica diventa “mezzo per esprimere il suo trauma e trovare sollievo”, e prosegue tra le storie una storia “in evoluzione”, con il simbolismo della fiamma sempre presente sul capo di uno dei suoi soggetti.
Quel piccolo fuoco potrebbe intenzionalmente ricordare l’evento infausto, potrebbe in un certo senso dare una valenza spirituale ai suoi personaggi, divinizzati come nuovi supereroi sopravvissuti ai suoi fumetti, oppure potrebbe essere l’invito a pensare quella testa o quel gesto sottostante come il cardine di un’azione che inizia sul dipinto e prosegue nella nostra immaginazione. D’altronde la sua “poesia visiva”, come l’artista stesso la definisce, intende svincolare l’osservatore da un’intenzionalità univoca, aprendosi come un fiore all’interpretazione soggettiva di chi guarda. Ci lascia una traccia, uno spiraglio che suggerisce una porta socchiusa verso una dimensione dove le figure si muovono in un contesto cromatico al limite della realtà, tale da renderlo quasi allegorico.
Più si guarda e più ci si avvicina al metafisico. Di questo desiderio nella ricerca di fare emergere storie dietro ad altre, Identità/Mutamento offre passaggi sensibili.
In ordine d’apparizione: nelle prime due tele vediamo un solo personaggio che esemplifica un prima e un dopo, enigmatico come il momento presente di un giorno che scolora in notte. Qui i paesaggi condizionano molto la lettura, con livelli prospettici evidenti che costruiscono pattern vicini all’arte etnica. Nell’ultima sala troviamo invece uno stile più maturo e al contempo più astratto, dove la poesia visiva si nutre di gesti e relazioni tra più soggetti. Qui l’atmosfera pare avvicinarsi maggiormente a quella onirica alla quale l’artista anela, complice la scelta di avvicinarsi al volto, dunque alla psicologia del personaggio accompagnato dalla fiammella viva, e di evocare con la gestualità della mano il secondo personaggio.
Resta a noi decidere il suo ruolo, in una composizione che lascia indizi di due diversi punti di vista, due sentimenti opposti nella decorazione del tappeto accanto alla geometria più fredda del pavimento. In un insieme di grande armonia qualcuno sdraiato accanto ad una ragazza con gli occhi chiusi le sta accarezzando i capelli. Il volto di lei rivela un’inquietudine. Potrà calmare i moti del suo animo o è quel tocco a risvegliare antichi ricordi?
Franklyn Dzingai ( 1988) vive e lavora ad Harare, capitale dello Zimbawe. In un certo senso è il più africano di tutti gli artisti a Palazzo da Mosto.
Sia dal punto di vista tecnico, per la sua attualizzazione di pratiche realizzative tradizionali, che sono antichissime ma nei suoi dipinti assumono sembianze di modernità e originalità associate al collage; che per il contesto personale di genesi artistica. Intorno a lui la quotidianità urbana è connotata da avverse e complesse condizioni socio-economiche: afflitta da un’inflazione incontrollata, dalla disoccupazione dilagante e dalla scarsità di servizi. Nel suo ambiente più intimo, l’atelier, le cose cambiano, ovvero la situazione concreta trascende in esistenziale e il suo mondo artistico risponde con una dolce malinconia al disagio della strada.
I suoi personaggi sembrano in posa per un ritratto in un ambiente ideale.
Qualcuno guardando l’iconografia di Dzingai ripenserà alla postura dei soggetti in studio nei ritratti fotografici di Malick Sidibé, ma qui il senso narrativo non si limita alla figura, calata in un contesto bidimensionale dove i colori piatti definiscono le forme, e nel quale gli oggetti “di scena” raccontano ulteriori storie, accanto a quella del protagonista. Come tutti gli artisti in mostra Dzingai esprime un forte e originale approccio alle tecniche scelte: la loro esecuzione richiede una perizia fuori dal comune come pure, se non ancor più, la loro attualizzazione così funzionale allo sviluppo di una narrazione poetica. La precisione dei dettagli è leggibile anche quando lascia “respirare” i diversi livelli di stampa lasciando intravedere uno strato sottostante, è un dono per il volume della forma in un universo a due dimensioni. Osserviamo un manufatto d’impatto estetico, sviluppato attraverso un lavoro sapiente.
L’insieme dell’opera, complici colori accesi e brillanti del pop anni Sessanta è carico di una vitalità che irraggia speranza e desiderio di riscatto unita ad un senso di libertà dell’improvvisazione formale in alcuni dettagli rivelatori.
Mi spiego meglio con lo splendido esempio di Mukomana Wechidiki (Young Man), 2024. Dzingai dimostra di essere tra i pochissimi in grado di padroneggiare un processo di stampa realizzato grazie al disegno tracciato su matrici di cartone, una tecnica tipica dell’artigianato zimbawese. L’artista stampa con rulli, senza l’ausilio di un pennello. Isola le parti che non vuole colorare e così scompone l’immagine colore dopo colore fino al lavoro completo, poi ci sono colori che vengono messi in sovrapposizione e i dettagli, dove li vuole definire, sono fatti a collage.
Anche l’abbinamento di queste due tecniche così diverse, una antichissima e una della modernità, riporta alla quotidianità caratterizzata da quel binomio Identità/Mutamento, però il collage sui volti riesce a superare l’idea di identità individuale se si pensa che viene da una ricerca d’archivio di riviste, libri, foto di famiglia. La presenza di queste figure con i visi in bianco e nero, su uno sfondo acceso dominato spesso da pattern di tessuti stampati, ricompone l’identità di un popolo.
“IDENTITA’/MUTAMENTO attivismo globale, testimonianza,radici”, Palazzo da Mosto, via Mari 7 Reggio Emilia. Per conoscere altri progetti di Flag no Flags www.flagnoflags.org
Michela Ongaretti