“Morris oltre Morris” verrebbe da dire osservando tutta l’imponenza di 4 Rings, 2 Centers, l’opera che dà il titolo alla mostra visitabile fino al 21 maggio 2022 alla Osart Gallery. Un’installazione dall’eleganza sospesa che fu esposta inizialmente in occasione della prima personale milanese dell’artista americano, presso la galleria Alessandra Castelli nel 1974.

In quella data ancora scottava il lungimirante articolo pubblicato su Artforum nell’aprile del ‘68, frutto dello stesso Morris che si trovò ad assurgere il ruolo di teorizzatore di una nuova tendenza, di cui rifiutò il nome: Anti-form, un titolo redazionale che, suo malgrado, segnò l’evoluzione artistica.
Forza e gravità si fusero con il principio di ricerca delle forme e di ordine. Com’è noto, rispetto ad altri minimalisti (quali Donald Judd, Carl André, Sol Le Witt) Morris si interessò maggiormente agli aspetti processuali, piuttosto che al conservatorismo spaziale degli altri.
Favorì l’evoluzione di un farsi, o meglio, di un presentarsi delle cose, anziché contemplare il mero rapporto della materia con uno spazio. Eppure, quest’ultimo elemento non è affatto da sottovalutare. L’ambiente era fortemente considerato e sperimentato dagli artisti del tempo per poter mutare i confini naturali dell’operazione artistica e ciò aveva lo scopo di introdurre un interessante punto di vista sociologico dato dall’inclusione del pubblico chiamato a relazionarsi con l’opera stessa, ma anche di annullare il fenomeno della mercificazione dell’arte.

L’interesse per l’evoluzione fenomenica di una materia – cominciato da un’iniziale passione per la danza, data dalle
ricerche coeve della prima moglie Simone Forti – l’ha condotto ad introdurre dei procedimenti neodadaisti, giungendo così all’uso dei suoi celeberrimi feltri di produzione industriale.
È però il rapporto con lo spazio, il processo e l’immancabile misticismo ascetico, che avvolge delicatamente ogni suo lavoro, a rendere quest’opera così sorprendente.
Robert Morris amava giocare con gli opposti e ricercava la bellezza mai ordinaria del contrasto. Come quello del bianco e il nero, del vuoto e il pieno, dell’assenza e la presenza, della leggerezza e la profondità e persino della leggiadria e la poderosità. La sua è stata una poetica precisa e profonda basata sugli ossimori presenti nello stato ideativo e materico delle cose. Ben si percepisce nello spazio della galleria Osart, dove trova luogo questa installazione dalle dimensioni monumentali, composta da sei elementi, per uno sviluppo totale di quasi venti metri.

Essa testimonia un momento chiave della carriera dell’artista, mantenendo un’essenzialità delle forme di matrice minimalista, ma allo stesso tempo ne rimodella radicalmente l’ambiente. L’installazione è accompagnata, inoltre, dalla documentazione relativa alla prima occasione espositiva: una serie di opere su carta degli anni Sessanta (concesse dalla Collezione Panza) che testimoniano lo sviluppo delle ricerche minimaliste di Morris.
Quattro grandi cerchi dalle circonferenze decrescenti si susseguono vettorialmente attraversando l’ambiente, ma nella loro corsa, due piccoli centri fungono da pausa.
Una, la più lunga, collocata alla fine sulla parete, è il silenzio finale che scrive la conclusione di questa originale partitura e l’altra si presenta, invece, improvvisa e breve, collocata però sul pavimento. Pare una musica muta, da ascoltare coi soli occhi, che inducono il fruitore a provare un’astrazione mentale. Lo stesso Giuseppe Panza di Biumo, grande estimatore di Morris e di altri minimalisti, scrisse che l’elemento più evidente delle opere morrisiane è il
loro “carattere intellettuale e mentale”.

Si trattava, secondo l’appassionato collezionista, di sculture in cui la realtà era spogliata di ogni elemento superfluo, in cui trapelava il significato ultimo e profondo che lega ogni cosa. A guardare bene l’armonia di quest’opera, pare riprendere (in modo fisico) quella che John Cage chiamò “la scultura ritmica micro-macrocosmica”, ossia l’indagine del ritmo espresso dal non-suono, dal silenzio, dall’immobilità o dal movimento nella danza. Per tale ragione l’installazione può essere assimilata ad un percorso meditativo, derivato dallo studio del Buddismo Zen.
Questa filosofia è assai cara ai minimalisti che si ispirarono alla pittura zen del giapponese Sengai Gibon (1750-1837) e fondamentale fu la sua rappresentazione grafica dell’Universo attraverso le tre forme geometriche di un cerchio, di un triangolo e di un quadrato, che simboleggiano la riduzione figurata di ogni cosa al suo aspetto essenziale ed elementare.

Una geometria purificata da significati concreti si riscontra anche nei disegni presenti in questa mostra.
A mano libera, l’artista ha delineato in modo chiaro e pulito la presenza di forme nello spazio, che completano la melodia bianca della sala principale. È tutto un gioco di pieni e vuoti, pause e suoni immaginari. L’acustica metaforica morrisiana, che consente il nesso filosofico, è sublimata dal luogo. Un luogo qualunque, al chiuso o all’aperto che sia.
Un esempio della sua ricerca ambientale è dato dalla lunga permanenza di Morris, ricordata da Giuliano Gori, nella
straordinaria Fattoria di Celle dove ha realizzato il suo Labirinto, e non solo. Si tratta di una collezione unica, che Morris ha contribuito a rendere preziosa con una tappa della sua ricerca artistica.
Marta Russo
Per maggiori informazioni https://www.osartgallery.com