Life. La vita, quella vera. Dall’osservazione di fenomeni dell’attualità nascono le opere del festival organizzato da Zona K, che coinvolgono lo spettatore in un coacervo di emozioni incalzanti.
La rabbia, la paura, l’ansia sociale, la guerra che non finisce mai, la ribellione disperata, la violenza concreta e quella rappresentata che rompe equilibri, le controversie della tecnologia, tutto questo attraverso la forza e la bellezza delle diverse discipline artistiche, portatrici di empatia con le tematiche trattate. Life è un festival internazionale sull’umano dalle sfumature personali in ogni opera, che abbraccia riflessioni senza confini geografici.

LIFE. Theatre Arts Media Festival è in scena a Milano. Dal 7 al 19 maggio in diversi spazi della Fabbrica del Vapore, si diffonderà dal 4 al 21 giugno alla sede di Zona K nel quartiere Isola, al Teatro Fontana e al Teatro Out Off.
Fa riferimento esplicito alla rivista americana LIFE, che ha diffuso immagini iconiche come potenti racconti autoriali di momenti cruciali del XXesimo secolo, entrate nella memoria collettiva. Come ha fatto il magazine il festival ambisce a stimolare dibattito sul presente, “attraverso l’incisività di una messa in scena che si muove sull’ambiguo confine tra realtà e finzione”. La proposta intreccia teatro, arti e media, questi ultimi intesi non tanto come strumenti multimediali ma tutto ciò che concerne il mondo dell’informazione lontano dal mainstream, vicino all’inchiesta e non al rapido avvicendarsi delle notizie, per portare riflessione, creare connessioni tra gli ambiti del sapere.

Persino osare di dare al pubblico responsabilità nell’interpretazione dei temi affrontati, affidandosi al potere trasformativo dell’arte.
Rimescolando narrazioni e linguaggi, ridiscutendo il concetto di autore e interprete, LIFE intende riformulare i criteri di fruizione dell’opera in cui il è rapporto con la realtà a farsi oggetto e strumento d’indagine. Pertanto, nei diversi eventi, arte visiva, performance, cinema, giornalismo, scienza e ricerca concorrono ad aprire vividi dialoghi con gli argomenti della sociologia, dell’urbanistica, della statistica, dell’economia e della tecnologia, della maltrattata Storia.
LIFE inclusive. Anche organizzare uno spazio e un tempo per la cultura pensato per essere accessibile a persone con mobilità ridotta è un atto rivoluzionario. Non così scontato nella nostra contemporaneità e nel nostro paese. Visto che è possibile?

Dunque senza un briciolo di noia su questioni pratiche ma fondamentali per me e per tanti ecco il resoconto della primissima serata. Esprime in nuce l’impostazione dei futuri eventi, attraverso una multidisciplinarietà capace di scatenare dibattito e scuotere coscienze senza scadere mai nell’illustrazione didascalica del presente.
Ospite della Fabbrica del Vapore il racconto fotografico Cronache di un’apartheid di Pietro Masturzo e Samuele Pellecchia.
Lungo la “navata” della cosiddetta Cattedrale pendono dal soffitto le immagini in un’unica fila, il cui insieme è osservabile soltanto tornando al punto di partenza. In questo modo si crea un percorso narrativo fatto di momenti di vita quotidiana nella Palestina contemporanea, scatti catturati negli ultimi vent’anni che testimoniano soprusi e violenza i cui segni rimangono sulle persone e su elementi del territorio. In particolare spesso l’attenzione si focalizza sui giovanissimi, bambini e ragazzi cresciuti in un contesto di occupazione e guerra, sui limiti nelle loro azioni consuetudinarie e sulle difficoltà di gestire il pericolo costante per la propria vita, con i traumi perfettamente leggibili sui loro volti.

Nel processo coloniale di oltre sette decenni, per citare le parole di Francesca Albanese (portavoce ONU), ricordate in mostra. Il report sulla situazione dei diritti umani nel territorio palestinese occupato dal 1967, dice espressamente che ogni giorno viene colpito un popolo inteso come gruppo “ demograficamente, culturalmente, economicamente e politicamente, cercando di spostarlo altrove, di espropriarlo e di controllare la terra e le risorse”.

Quello che LIFE espone è puro fotogiornalismo. Testimonianza schietta che non necessita di elaborazioni artistiche sulle immagini, belle perchè efficaci, efficaci dunque belle, perché in grado di squarciare il velo della lontananza, di portare verità fermando la nostra osservazione su un mondo che sembra non appartenere al nostro, scorrendo nella moltitudine e nella velocità delle informazioni a cui siamo sottoposti. Masturzio e Pellecchia fanno parte dell’agenzia Prospekt che dalla sua nascita nel 2004 si occupa di questioni sociopolitiche in ambito nazionale ed internazionale, con una particolare cura verso la resistenza dei popoli di fronte alla violazione dei diritti umani.

Piu’ visionaria ma sempre calata nelle problematiche della società contemporanea Everything Must Go, l’installazione performativa multimediale di Dries Verhoeven.
Tutto parte dalla considerazione che dall’introduzione delle casse self-service molte più persone rubano merce nei supermercati: sul concetto di furto nell’era neoliberista in crisi l’artista olandese ha raccolto diverse testimonianze, dei nuovi ladri del terzo millennio e degli esperti di questa dinamica, per costituire un’opera avvolgente e ipnotica. Si entra in un ambiente buio rischiarato da numerosi monitor, organizzati in aree attorno a quella che all’inizio mi pare una serra illuminata. Avvicinandomi capisco che si tratta della ricostruzione di una corsia di un supermarket e che all’interno si muove una performer nascosta dai prodotti sugli scaffali. Dalla sua desolante posizione, pare quasi intrappolata o a momenti affranta, poi nel corso della performance, che dura live 5 ore continuative al giorno, disperatamente sporca di cibo, dirige verso la telecamera di sorveglianza la sua confessione.

Noi spettatori vediamo moltiplicarsi sugli schermi, da fuori, la sua giustificazione, il racconto delle azioni e delle motivazioni, sue e di altri che scelgono di rubare abitualmente, come voyeur di un vizio che più che necessità esprime una forma di atto politico di resistenza ai valori della società dei consumi.
Il lungo monologo cita le interviste raccolte da Verhoeven frammiste alle parole di studiosi come Jean Genet, Karl Marx, Ruben Östlund, Rachel Shteir, Mathild Clerc-Verhoeven e Slavoj Žižek. LIFE ha presentato Everything must go come prima nazionale fino al 9 maggio e spero vviamente che questa inqueitante verità raccontata con coinvolgente amarezza trovi presto repliche. Sempre al piano terra dello Spazio Messina, Dal 12 il festival prosegue con un’altra installazione multmediale dal titolo Liminal /Border Forensycs. Asymmetric Visions, su altri sistemi di sorveglianza, quelli delle frontiere marittime.

Mi ha lasciato qualche sana perplessità lo spettacolo teatrale Who is afraid of representation?, che riesce ancora ad esser attuale pur viaggiando per il mondo dal 2005.
Rabin Mahrué, interprete e autore, e Lina Majdalanie appaiono in tutta semplicità attorno ad un tavolo illuminato da una grande lampada e iniziano un gioco. Aprono a caso un catalogo sulla body art europea. Se esce ad esempio Gina Pane che sta su pagina 33, l’attrice ha 33 secondi per parlare delle azioni dell’artista. Sono molti i nomi, molte le descrizioni in prima persona di performance che operano atti di violenza sul proprio corpo per esprimere concetti più generali, forse troppi per lo spettatore, finché un colpo di scena rompe quella sorta di enciclopedia della body art. Ad un certo punto la pagina scelta è una foto e Mroué racconta, brevemente ma senza limitazioni imposte sul tempo, una parte della storia di Hassan Mamoun, del “giorno di ordinaria follia” in cui un funzionario pubblico del Libano ha ucciso dieci colleghi.

Ancora i racconti interrotti delle violenze autoinflitte a fini espressivi di tanti nomi come Joseph Beuys, Chris Burden, Orlan, Marina Abramović, intervallati dai dettagli sul delitto di Mamoun.
Sono colpita dalla scenografica originale per la pièce: la body art e il corpo dell’attrice dietro uno schermo, mentre la parte sul pluriomicida davanti al pubblico, senza filtri. Così si distinguono la violenza della rappresentazione e la rappresentazione della violenza. Ad accomunare le controparti tematiche è l’esibizione dirompente dell’atto di sparare, quando l’uomo uccide il corpo teatrale della donna, la quale si rialza lasciando a terra quella presenza. Solo alla fine, nell’incertezza dei moventi dichiarati da Mamoun, anche il suo “ologramma” permane sullo schermo, aderente ad un altro doppio femminile. La memoria riattivata del dramma reale entra nella Storia per diventare anch’essa una sorta di performance che finisce: una volta condannato il colpevole non si analizzano le responsabilità politiche nel contesto sociale libanese di quegli anni. Nell’inaugurale opera teatrale di LIFE Arte e vita violente resistono solo nella rappresentazione in una società in crisi, l’unica concessa.

Concludo le mie impressioni sulla visita a LIFE con un invito per i miei lettori: fossi in voi non perderei la conferenza spettacolo di Jean Peters con CORRECTIV. Un’inchiesta giornalistica che diventa avvincente nell’incontro con il teatro. Uscirete con la domanda cocente: come possiamo salvare la democrazia dal baratro? Ci vediamo il 13 maggio alla Fabbrica del Vapore!
Per i biglietti e altre informazioni https://zonaklife.it/
Michela Ongaretti