Al museo si può entrare per le preziose testimonianze di un’antichità misteriosa, ma da subito si capisce l’esitenza di un doppio filo conduttore. Infatti, disseminate tra i reperti troveremo opere d’arte moderna e contemporanea, con mostre temporanee all’interno del percorso espositivo permanente. Tutto questo negli spazi della Fondazione Rovati, a settembre di quest’anno aperta al pubblico in Corso Venezia a Milano.
Se la collezione nasce sotto il segno della civiltà etrusca con ceramiche, bronzi e ori, il suo sviluppo e la sua costituzione in museo cresce attraverso la sensibilità della nostra epoca, che valorizza il dialogo con il passato per una nuova possibilità di fruizione.
L’esempio più originale e prezioso di questa aspirazione è l’intervento di restyling architettonico ed espositivo di Mario Cucinella. Così, entrando al piano ipogeo, una volta le cantine, ci si trova catapultati in una dimensione quasi sospesa, dove l’illuminazione e le pareti sinuose in pietra fiorentina, senza angoli, riportano all’atmosfera dei tumuli nella necropoli di Cerveteri.
A ben vedere anche l’area del centro storico in cui si inserisce il palazzo, con le sue vicissitudini storiche, è frutto di diversi interventi e personalità.
Corso Venezia, come lo vediamo oggi, prende avvio da quel desiderio di rinnovamento urbanistico voluto dall’ l’arciduca Ferdinando d’Asburgo– Este in veste di viceré, che diede l’incarico al celebre architetto Piermarini di rendere la via più scenografica, di rappresentanza per la monarchia. In breve la nobiltà milanese si spostò su questo corso lasciando quello di Porta Romana. Oggi, tra uffici e negozi di alta moda e bar di punta, dal numero 52 si accede al museo privato più nuovo (e innovativo) della città.
Il viaggio in cui ci stiamo per immergerci, fatto di stratificazioni secolari, coinvolge anche due famiglie importanti per il tessuto sociale milanese.
Prima di diventare sede della Fondazione, viveva Javotte Bocconi Manca di Villahermosa, presidente del consiglio di amministrazione dell’Università Bocconi e promotrice della nuova sede universitaria in Via Sarfatti. fu colei che creò anche l’Istituto che porta il suo nome per aiutare studenti e famiglie meno abbienti, questo aveva sede qui fino al 2009. Al museo della Fondazione Luigi Rovati si respira anche l’aria di Giuseppina Rizzoli – Carraro, figura chiave nell’editoria italiana. Fu lei ad avviare una serie di lavori significativi di recupero del Palazzo, chiamando gli architetti Ferdinando Reggiori e Filippo Perego.
E ora? I Rasna (etruschi) sono protagonisti al museo che merita la raccolta di Rovati , anche se non è il primo museo etrusco del capoluogo lombardo. In effetti un’ampia sala è dedicata a questa civiltà nel Museo Archeologico di Milano in Corso Magenta.
La domanda che sporge spontanea è: perché a Milano, dal momento che gli etruschi sono principalmente collocati in Emilia, centro Italia e Campania?
La risposta è data dal Presidente Giovanna Forlanelli Rovati: «Riguardo al versante etrusco, i grandi musei italiani, da quello di Roma a Villa Giulia (magnifico ma purtroppo poco visitato, perché oscurato dai tanti altri musei della città) a quelli di Bologna e Firenze, fino a quelli, più piccoli ma straordinari, di Volterra, Tarquinia e di altri siti, ci hanno chiesto di diventare un tramite tra loro e il pubblico, una sorta di “antenna”, privilegiata dalla nostra collocazione in una città aperta al mondo come Milano. È un impegno che ci prendiamo volentieri, anche perché il nostro museo vivrà di alleanze e sarà in costante sperimentazione».
Nell’atrio ad accoglierci è la statua in marmo di Luigi Rovati (1928 – 2019), dello scultore romano Giuseppe Ducrot.
Proprio come le statue che si vedono nei corridoi universitari o ospedalieri, scolpita per ricordare da dove nasce il tutto e chi lo dobbiamo. Medico, ricercatore e imprenditore farmaceutico ma soprattutto con una grande propensione verso le arti, una frase che lo ricorda: “Ho sempre collezionato con lo stesso metodo con il quale ho formato la mia vita di ricercatore: raccolgo elementi per la conoscenza”.
Per approfondire meglio fino al 20 gennaio 2023, nel giardino interno vi è un padiglione, dove si indaga in maniera più articolata la sua figura e il modus operandi, tramite le parole del critico Flaminio Gualdoni.
Entriamo, si parte dal piano ipogeo, con l’impressione primaria di essere catapultati in una necropoli sotterranea.
Si arriva tramite una scala intagliata in pietra serena, estratta dalle cave tosco-emiliane, se non si prende l’ascensore. 30.000 conci avvolgono in maniera continua lo spazio espositivo composto da tre sale circolari e una grande ellittica, sono disegnati uno ad uno e sapientemente costruiti e montati.
Nello spazio ipogeo l’illuminazione è calibrata in modo tale che l’attenzione si focalizzi sulle teche, in cui le opere sembrano galleggiare. Quasi a tratti si ha l’impressione che i surrealisti debbano molto a quest’arte del passato. Possono essere inconsapevoli i legami con l’arte più recente, ma al museo si scoprono similitudini tra le opere di Arturo Martini, Lucio Fontana, Gino de Dominicis e William Kentridge e le antiche produzioni in bucchero, i gioielli in oro e le fibule bronzee, i preziosi reperti votivi.
Le teche sono un esempio di ricerca ed eccellenza, appositamente progettate per questo spazio in collaborazione con Goppion, azienda italiana leader mondiale nel settore delle vetrine museali: «Un sistema innovativo da noi ideato consente di modificare l’orientamento delle luci attraverso un magnete, senza aprire le teche, per evitare qualsiasi rischio collegato alla manipolazione di oggetti tanto preziosi».
Lasciando questo mondo magico e denso di una civiltà lontana, ci immergiamo al piano nobile, dentro un confronto odierno con alcuni artisti che si sono ispirati in maniera più evidente e consapevole alle tracce stilistiche o tematiche etrusche.
Qui è mantenuta la struttura delle sale, l’apertura di porte e finestre, così da mantenere in vita, oltre al dialogo tra arte antica e contemporanea, la raffinatezza della dimora patrizia, culla ideale, dello studio della Fondazione. Grazie al restauro casa Rizzoli ha ritrovato il lustro di stucchi e parquet, grazie ai suoi nuovi “abitanti” è trasformata in un percorso di scoperte intrecciate all’esistente e alla diffusa collezione etrusca.
All’ingresso ci accoglie la sorprendente Lanterne à quatre lumières del 1983 di Diego Giacometti, designer e artista, fratello minore di Alberto. Proprio a Diego Giacometti la Fondazione dedicherà una mostra, la prima in Italia, nella primavera del 2023.
Nella Sala Azzurra a dominare la scena tra pissidi, anfore, figurine di animali è l’opera The Etruscan Scene: Female Ritual Dance di Andy Warhol.
Nella sua eccentricità ci fa capire come l’influenza sia arrivata oltreoceano, con l’interesse attivo alto nei confronti degli etruschi. Opere site specific sono state chieste a Giulio Paolini, che ha creato un’installazione per il Salone d’Onore, giocando su linee temporali prospettiche e immagini della classicità appartenenti alla memoria di tutti.
Un’ambiente dal fucsia sgargiante delle pareti è interamente dedicata all’artista Luigi Ontani, in quella che fu la sala da pranzo. Ancora lo spazio della biblioteca oggi è diventata una Sala delle Armi, al posto dei libri troviamo vasi e altri reperti etruschi. Sul versante della pittura moderna non posso dimenticare la sottile relazione tematica che si instaura tra un dipinto di De Chirico e una solitaria armatura rinascimentale.
Nel corridoio tutto quello che abbiamo visto è riassunto sugli arazzi di Francesco Simeti, che mescola la storia del palazzo a quella della collezione. Va guardato con attenzione perchè mimetizzato nel contesto, come un’altra opera realizzata ad hoc, il grande specchio del camino di Marianna Kennedy.
Se vi sentite abbagliati dagli audaci salti spazio-temporali, il ristorante può essere un ottimo modo per riflettere sulla visita al museo, dalla sua terrazza potrete godere della vista sul parco Indro Montanelli.
Prima di uscire però non dimenticatevi una sosta in giardino dove vedrete le cupole ricoperte d’erba, che rispecchiano la linea del piano ipogeo, ricreando così anche l’idea del sito tombe di Cerveteri. Qui, grazie al progetto di recupero del giardino, oggetto di tutela paesaggistica, sono state preservate le specie arboree esistenti in armonia con nuovi innesti plantari e vegetativi identitari del paesaggio dei giardini milanesi, ad opera dell’architetto con cui abbiamo iniziato e concludiamo questo viaggio, il Piermarini.
Bohdan Stupak