La scrittura fine, microscopica e delicata, è quella che scorre fluida dalla mano di Mario Fallini. Avvalendosi del processo soprattutto di riscrittura, al pari di un amanuense, l’artista dà vita ad opere di originale e poetico anacronismo. La mostra La voce della scrittura è visitabile presso la galleria San Fedele di Milano fino al 10 maggio.
Quel che si percepisce subito, varcando la soglia dell’ampio spazio immacolato e silenzioso della Galleria San Fedele, è questa curiosa patina elegante, che pone immediatamente nel fruitore l’interrogativo sul tempo.

Il visitatore si trova così in un contesto nuovo, lontano dalle teorie metalinguistiche, dai complessi sistemi strutturalisti sottesi sovente a tali aspetti. Mario Fallini presenta invece la sua pratica del fare, un far con mano. Ben si riscontra nella sua Carta della Memoria, un calligramma che riproduce nel suo svolgersi l’immagine allegorica della Memoria, tratta a sua volta dalle indicazioni di Cesare Ripa presenti nella sua celebre Iconografia del 1603. Ripa espose i dettami-guida per la rappresentazione di svariate figure allegoriche promuovendo un metodo di definizione visiva che si sposava con la logica e la retorica aristotelica. Promuoveva dunque un processo a metafore che tanto ha affascinato anche Mario Fallini.
Lui le impiega come strumento di riflessione sulla propria produzione per dare, dunque, memoria del suo operato. La grande donna veste i panni di tale allegoria: dai capelli corti e scomposti, brandisce un chiodo di grandi dimensioni e si presenta accompagnata da un leone e un’aquila, gli animali che più fra tutti hanno memoria dei benefici ricevuti. La carta si compone di parole, o meglio, dei titoli dei lavori dell’artista che contribuiscono nel definirne l’ossatura.

Più che un’opera celebrativa, si tratta di un paziente lavoro che fa trasparire tutta la ricerca artistica di Fallini: l’incessante e inevitabile rapporto tra testo e immagine. Se la novità introdotta da Ripa è stata quella di considerare l’immagine un linguaggio autonomo a tutti gli effetti, a Fallini preme dimostrare la circolarità di questi due elementi che, pariteticamente, rimandano l’uno all’altro.
L’esperimento è provato anche nel senso opposto, con il Mosaico della Memoria: non più titoli ma microscopiche immagini dei lavori di questo artista, dalle quasi inesistenti informazioni biografiche.
Luca Busi, curatore di La Voce della Scrittura insieme ad Andrea Dell’Asta S. J., ha presentato durante la mostra il volume La responsabilità dello spettatore. Un itinerario raccontato attraverso l’arte di Mario Fallini. Qui si parla di una nota biografica dell’artista pubblicata in passato, che recita: “Mario Fallini nasce nel 1947, dove vive e lavora”.

Il dato geografico erroneamente mancante fa paradossalmente trapelare l’idea di abitare un tempo, anziché un luogo. Un dettaglio questo che ben incarna la poetica di questo artista. Più che un tempo a lui contemporaneo, le lancette dell’orologio falliniano sono collocate in un tempo indefinito, un non-tempo si potrebbe dire, in cui la dimensione attuale si fonde enigmaticamente con quella passata e futura.
Massimo esempio di tale atemporalità lo si riscontra ne Il nome della rosa, che introduce a sua volta anche la forte componente riscritturale, tanto cara all’artista. Copia uguale e diversa al contempo, che annienta di conseguenza il pensiero di un prima ed un dopo, promuovendo invece un suo continuum.

Fallini riscrive a mano su carta il noto romanzo di Umberto Eco, presentandolo come innovativa Eco-grafia. Un gioco di parole che scava da un lato l’atto profondo di recuperare la materia prima del romanzo stesso, ossia lo scrittore e la sua mano su un foglio, e dall’altro fa nuovamente luce sul rapporto tra l’elemento testuale e quello visivo.
Qui è affrontato con un approccio che si amalgama perfettamente con il contenuto: l’ hora et labora di quei monaci che riscrivendo i testi hanno saputo tramandare opere senza tempo, creando loro memoria. Il tema del rapporto tra immagine e parola, si sa, è oggetto di numerose riflessioni e dibattiti che hanno attraversato i secoli e diviene inevitabile rifarsi a quell’eterno paragone tra poesia e pittura. Una relazione affrontata e approfondita sin dai tempi di Simonide, autore greco del nobile verso “la pittura è poesia muta, la poesia è pittura parlante”, ed ancor più da Leonardo, nel suo Trattato della pittura, (1490-1516 circa).
In seguito il connubio si è spostato verso un terreno più praticabile di uno scambio operativo, ovviamente non gerarchizzato, tra i linguaggi e le discipline artistiche. Focalizzato su una comune strutturazione della creazione intellettuale che è stata la base dell’evoluzione della Poesia Concreta in quella Visiva, e persino della più recente Nuova Scrittura, fondata negli anni Settanta.

Ecco che di nuovo emerge un tempo non-tempo, destinato ad incarnare il continuum di un pensiero e di un processo, piuttosto che il suo inizio o la sua fine.
A sottolineare come tale rapporto esista ed esisterà sempre, vi è l’opera Ab Ovo, il cui titolo è un’espressione che indica, tra l’altro, ciò che è narrato sin dalle origini. Si tratta di un’impronta digitale scritta e disegnata allo stesso tempo, metafora della vita pulsante e quella che si tramanda geneticamente. È un legame che esprime, dunque, il senso dell’esistenza ed abbraccia anche la più banale quotidianità.
Con Fallini la scrittura diviene persino abito, da sposa per di più, insistendo ulteriormente sulla sua peculiarità di essere forza generatrice. I grafemi qui presenti sono la riscrittura de I Promessi Sposi manzoniani. Un racconto come prêt-à-porter di seta che ripara un corpo nudo, come le parole fanno coi liberi pensieri della mente.

Laddove la parola non è scrittura, essa si fa suono. Sibili soavi e precisi che costringono le labbra a muoversi seguendo i processi mentali di una determinata cultura.
Con le sue Flatus Vocis, Fallini muove questo interrogativo: quanto dell’esperienza sinestetica può essere tradotto e trascritto in parole ed immagini? Il cerchio della mostra falliniana si apre e chiude simultaneamente con l’opera che meglio sintetizza la sua poetica e che dà il titolo all’esposizione. La voce della scrittura è l’effige di una macchina da scrivere dei primordi (la Remington 1 del 1873 – anno della sua nascita – anche se commercializzata gioco solo sei anni più tardi). Fallini costruisce lo strumento con un gioco di significati racchiusi nell’immagine del suo significante.

Anche in questo caso la macchina da scrivere è composta di parole. Sono tratte dalla voce del termine scrittura presente nell’Enciclopedia Einaudi, ma la vera voce che anima questa macchina altro non è che la scrittura stessa. Citando Roland Barthes, è possibile dire, infine, che per mezzo di una libera grafia Mario Fallini conduce lo spettatore nel territorio di “scrivere la lettura”, in un assiduo e nevralgico confronto senza tempo tra parola e immagine.
Marta Russo