Le otto montagne sta riscuotendo un grande successo al botteghino. Un segnale incoraggiante dell’interesse italiano verso il cinema di qualità, che porta in scena una storia toccante, dedicata ad una tematica poco scontata.
La vicenda de Le otto montagne è immaginata, ma potrebbe esser vera, dal duo di registi Felix van Groeningen e Charlotte Vandermeersch, sulla traccia del romanzo Premio Strega di Paolo Cognetti.
Ha già fatto il giro del mondo dei festival d’autore il film, premiato a Cannes nel 2022, di recente acclamato nella sezione Spotlight al Sundance Film Festival.

Se l’editoria è zeppa di manuali che insegnano a capire l’atro sesso in ambito amoroso è altresì vero che la tematica dell’amicizia tra uomini scarseggia non solo negli scaffali ma anche sullo schermo. L’amicizia tra donne (anche tra uomo e donna) invece è un argomento più diffuso anche se poco esplorato e soprattutto banalizzato. La contemporaneità, che vede protagoniste le nuove generazioni e l’avvento delle piattaforme streaming, ci sottopone quotidianamente storie di persone che si sentono rappresentate dal termine LGBTQ+. Che sia una fiction o un documentario il tema è pressoché ricorrente.
Le otto montagne così si fa spazio tra una dovizia di contenuti omologati trattando un argomento ignorato o trattato con superficialità.

Certo la storia del cinema vede capolavori come “Jules e Jim”, “Amici miei”, “Will Hunting – Genio Ribelle”, il più recente “Quasi amici”, i “Vitelloni” e perché no “Un mercoledì da leoni”. Ma è altresì vero che Felix Van Groeningen e Charlotte Vandermeersch sanno indagare senza orpelli e distrazioni il legame tra i protagonisti Bruno e Pietro.
Il matrimonio (non solo coniugale) dei due registi si percepisce in tutta la pellicola. Arasudano le sensibilità dei generi, la fuga maschile dalla condivisione emotiva viene messa in luce con la consueta accoglienza del femminino. Questo connubio di energie maschili e femminili restituisce al film un carattere complesso, articolato nonostante l’onestà con cui viene raccontata la vita dei protagonisti.

Un film intimo raccontato con la sincerità di un bambino, lo stesso bambino che in sala seduto al mio fianco, a fine proiezione, dice alla mamma “Bello, però non mi aspettavo un finale così triste”.
Uno squarcio nella membrana della vita dei protagonisti, amici inseparabili anche quando gli eventi li porta lontani chilometri. Uno sguardo delicato sulle vite di Pietro (Luca Marinelli) e Bruno (Alessandro Borghi), prima bambini e poi adulti, legati da una amicizia senza tempo e ruoli. Una sola regola tra loro: ritrovarsi ogni estate.

Poche parole, scelte con cautela ma dense di significati. Un’amicizia che li vede affrontare le intemperie dell’esistenza, lentamente, così come le stagioni anno dopo anno modificano la montagna di Graines, un luogo silenzioso e solitario in cui i due possono riflettere sul lutto, l’amore, la solitudine e l’incapacità di trovare un posto in cui sentirsi a casa per Pietro e la consapevolezza di non poter stare in altri luoghi al di là della montagna per Bruno.
Entrambi segnati da un rapporto difficile con il proprio padre, dovranno fare i conti con quell’eredità che non possono scegliere di cambiare (anche se Bruno per un certo periodo legherà molto con il padre di Pietro).

Le radici non si possono cancellare e tempestivamente tornano a ricordarci chi siamo.
«Il ghiacciaio è la memoria degli inverni passati che la montagna custodisce per noi» dice ad un certo punto il padre di Pietro durante una gita al ghiacciaio. Le otto montagne esplora il passato nelle trame del presente: una realtà concreta, nessun evento spettacolare colora la pellicola.
Un racconto di vite comuni ci conduce dolcemente a vestire i loro panni. Un cinema vero, mi viene da pensare cosa ha rappresentato il neorealismo e oggi in una epoca di filtri, finzione e vanagloria abbiamo davvero bisogno di un un nuovo neorealismo. Accettare che la vita è fatta di ostacoli, linearità e piccole cose che si manifestano spontaneamente come l’amicizia, che piccola non è ma vive nello dispiegarsi dell’esistenza, una presenza silenziosa che sostiene e comprende “nonostante tutto”.

Oltre al maestoso lavoro di regia, ad arricchire la pellicola di emotività, c’è la personalità del direttore della fotografia Ruben Impens con la scelta del del formato 4:3, insolito per chi potrebbe incorniciare in senso più spettacolare i vasti paesaggi montani, magari con un widescreen.
Non è questa l’intenzione, semmai ciò che pervade formalmente e simbolicamente la pellicola, e le sue singole scene, è la dimensione interiore dei protagonisti, il loro sguardo. Un formato che assomiglia di più al campo visivo umano, dunque parziale, come uno sguardo dalla finestra di una casa costruita a propria misura. Entrambi i protagonisti scelgono di vivere secondo la loro natura, così il loro guardarsi è reciprocamente proteggersi all’interno della memoria soggettiva.

C’è anche un’alta valentia attoriale, quella di Alessandro Borghi e Luca Marinelli ma anche dei due bambini, Cristiano Sassella (Bruno) e Pietro Lupo Barbiero (Pietro). Ci ha lasciato a bocca aperta per l’onestà della loro interpretazione. E infine la colonna sonora di Daniel Norgren, che ci regala un’esperienza audiovisiva coinvolgente.
Il titolo “Le otto montagne” deriva da un’antica leggenda nepalese: al centro del mondo c’è La montagna altissima, intorno ci sono otto mari e otto montagne.

Alcune persone passano la vita esplorando le 8 montagne e gli 8 mari altre unicamente scalando LA montagna. La domanda è: chi ha imparato di più? Chi ha visitato “le otto montagne” (Pietro) o chi ha raggiunto la vetta del Sumeru (Bruno)? Vi lascio con questa domanda, sperando un giorno di trovare io stessa una risposta.
Giada Destro