Lonely Are All Bridges è il titolo di una bipersonale che mette in dialogo il lavoro di due artiste iconiche, Birgit Jürgenssen (Vienna, 1949 – 2003) e Cinzia Ruggeri (Milano, 1942 – 2019). Non si sono mai incontrate ma avrebbero avuto molto da confidarsi e chissà, ispirarsi a vicenda. Fondazione ICA ha inaugurato le attività espositive del 2025 con la mostra a cura di Maurizio Cattelan e Marta Papini lo scorso 16 gennaio. Resterà aperta al pubblico fino al 15 marzo 2025.
A supporto del progetto l’Archivio Cinzia Ruggeri, Milano e l’Estate Birgit Jürgenssen, Vienna. Di Cinzia Ruggeri ho avuto modo di parlare a più riprese, ad esempio in occasione della personale presso la Galleria Federico Vavassori, che pure ha contribuito a questa esposizione con Galerie Hubert Winter, mentre la ricerca di Birgit Jürgenssen mi ha entusiasmato per la prima volta dal vivo.

“Lonely Are All Bridges” cita un verso della poesia I ponti di Ingeborg Bachmann, in inglese forse per far comprendere il carattere apolide delle due, anzi delle tre personalità presenti con la loro opera da ICA.
Lonely are all bridges, and fame is as dangerous for them as it is for us, yet we presume to feel the tread of stars upon our shoulders. Still, over the slope of transience no dream arches us. (…)
Dunque nella logica curatoriale tutti i ponti sono solitari come coloro che riescono a superare barriere, che si spingono oltre le convenzioni. Infatti le due artiste hanno saputo attraversare discipline all’epoca separate come moda e arte, design e fotografia, producendo oggetti “concettuali” che oggi ci appaiono, nella loro intermedialità, come un’espressione naturale del contemporaneo. Solitari si resta, per vocazione propria e altrui, quando la propria ricerca, a cavallo tra più linguaggi, resta difficile da definire. Così negli anni passati il lavoro di Ruggeri e Jürgenssen, fino alla consacrazione più recente, è passato un po’ in sordina nel panorama dell’arte contemporanea, anche per quella fame di autonomia che non cercava tanto uno sbocco nel mercato quanto l’affermazione di un linguaggio assolutamente originale.

Affrontando il vasto panorama del corpo, intrecciato agli interrogativi su identità e trasformazione, il fiume più agitato da superare è stato quello dei pregiudizi sulla donna, sul suo ruolo nella società.
Il dialogo attraverso le opere fa emergere un comune terreno di riflessione su questa controversa tematica, il messaggio nel cuore di tutto lo slancio creativo di queste interpreti della fascinazione per l’accessorio e l’ornamento, attingendo dal mondo animale e vegetale. Per lo spirito e tra le mani delle artiste nate negli anni Quaranta e formatesi negli anni Sessanta, diversi accessori sono dinamicamente intesi come estensione del corpo e strumenti di una riaffermazione del proprio spazio, di nuove consapevolezze, mettendo in scena, attraverso l’abito come espressione identitaria, una sottile critica sociale. In questo modo hanno scosso coscienze senza la retorica della lotta, o del più recente attivismo.
Lo spirito sperimentale ed eclettico di Lonely Are All Bridges è il motivo che mi ha spinto ad attraversare la città per venire a vedere una mostra davvero interessante, che permette a lavori ormai storici l’esplorazione di problematiche tuttora attuali, non risolte.

La volontà delle ariste di decostruire i miti del maschile, del suo potere, non sfocia mai nell’ovvio, o nel banale, ma riesce a incontrare la sensibilità dell’osservatore con leggerezza, sotto il segno costante dell’ironia. Merito della mostra è senz’altro di aver sottolineato questo approccio, scegliendo ad esempio un allestimento che non privilegia una selezione cronologica di abiti, sculture, foto o installazioni, ma che lavora sulle assonanze, con sorprendenti similitudini e rispecchiamenti concettuali.
Purtroppo dovrò segnalare una nota di demerito, non alla mostra in sé quanto al luogo che la ospita, è per me doverosa. Ma prima sempre le buone notizie.
”Lonely Are All Bridges. Birgit Jürgenssen e Cinzia Ruggeri” da ICA rappresenta un’estensione dell’omonima mostra, creata dagli stessi curatori a Vienna nel 2021, presso la Galerie Hubert Winter. Nello spazio industriale di via Orobia è stato possibile esporre un numero maggiore di opere, suddivise in salette tematiche che portano alla sala centrale, verso l’ampia parete di fondo, così ampia da ospitare un’installazione composta da una gigantografia di un disegno della Jürgenssen su carta da parati, a cui s’appoggia l’Abito Scala di Cinzia Ruggeri.

Tutto si svolge al primo piano, suddiviso in cinque spazi. Divertente affrontare similitudini e connessioni a piccoli focus delle salette ad inizio percorso, con quell’ intimità che permette un personale raccoglimento delle impressioni, scandendo tempi di visita differenziati. Qui è facile leggere le rispondenze nelle ricerche, rivolte a una lettura critica del ruolo della donna tra sfera sociale e domestica, specialmente tra anni ’70 e ’80.
Una scena dove gli attori sono scarpe e guanti, più che accessori strumenti di estensione simbolica di piedi e mani, o abiti come sineddoche intuitive del corpo, rivelatori di bisogni e desideri.
Le prime due stanze offrono opere come il disegno Housewives’ Work (1973) di Birgit Jürgenssen che ritrae una signora mentre stira e piega abiti che a ben guardare sono uomini in carne e ossa. Non solo il corpo della donna può diventare oggetto. A Sciagura (1991) di Ruggeri, dove dalla cornice di un disegno di scarpe eleganti fuoriesce una calza vera, risponde Gentleman’s Street Shoe (1972) di Jürgenssen, in cui la linguetta della scarpa si trasforma in una vera lingua. Ancora le iconiche Scarpe Scale (1984) di Ruggeri, sembrano cercare la fuga, collocate in verticale sul muro della porta.

Campeggia in diagonale occupando quasi tutta la saletta una sagoma nera che appare nata dall’ombra di una persona sdraiata, intenta a simulare la figura di una colomba con le mani, per materializzarsi in divano. E’ Colombra (1990) di Cinzia Ruggeri, per la quale l’umano anima e si rappresenta nell’abito come negli oggetti di design. L’ombra come gioco che suggerisce identità in trasformazione echeggia tutt’intorno con disegni e fotografie di Jürgenssen. Può rendere un corpo umano simile a un uccello o può interagire con la proiezione di un cielo stellato.
Scarpe e guanti come interpreti di sentimenti e misfatti di piedi e mani: strumenti di rivelazione in Bed Shoes (1974), o Porcelain Shoe (1976), sculture che trasformano la scarpa in letto o in vaso di porcellana (a forma di piede), per Jürgenssen. Ruggeri risponde con tre guanti poco funzionali ma precisamente espressivi, di cui cito Oops, il guanto perduto (2004), per la sola mano sinistra.

Passiamo al quarto ambiente dedicato al doppio, ovvero allo sdoppiamento. La personalità che deve fare i conti con se stessa e il mondo esterno, tra privato e pubblico.
Qui l’allestimento prevede che due disegni di Birgit Jürgenssen si rispecchino nello spazio: in uno la stessa artista tiene in braccio se stessa, Everybody is themselves the closest (1975), nell’altro la testa di un corpo femminile è una racchetta da tennis in I’ll Play the Match with Myself (1973), che rimbalza e rilancia la pallina come fosse un’idea martellante che rimanda a se stessa, e poi verso l’esterno. . Un effetto straniante per un’immagine che fa ben comprendere l’eredità di Surrealismo e Dadaismo, con una nota più leggera e frizzante ben espressa da Stivali Italia (1986) di Cinzia Ruggeri , al centro. La Penisola italiana, simboleggiata non da uno ma da ben due stivali, giocosamente verdi come un terzo della sua bandiera.

Senza avervi detto tutto, com’è giusto che sia, mi trovo nella quinta sala, dove osservo sulla parete di destra l’ingrandimento di Untitled (Improvisation, 1976), foto di Birgit Jürgenssen in cui dal palmo di una mano spunta un tacco, come una protesi del pollice.
Seguo sul pavimento vere scarpe, una fila lunghissima, con le punte rivolte verso il muro. Qui il rispecchiamento ricercato è concettualmente potente: al muro nella sostituzione di una parte anatomica con un oggetto dell’apparire femminile, il tacco a spillo; lungo la parete scarpe sia eleganti che sportive che in quella posizione raccontano corpi assenti, forse in punizione per tutta quella libertà e varietà di colori e stili, di vita.

Seguendo l’installazione, girato l’angolo, l’identità è messa ancora più in dubbio. Tre autoscatti di Jürgenssen in uno specchio concavo con un abito di latex che stringe la persona, nella deformazione che a tratti nasconde il volto. Di fronte lo specchio ovale Schatzi di Ruggeri invita a guardarsi nel suo riflesso ma, dalla cornice in velluto, tre coppie di manine sembrano insistere a spingerci dentro all’immagine, a rinchiuderci in quella visione.
Ed eccomi di nuovo nella grande sala, di fronte al muro campeggiante il wallpaper Aesculapian Snake (1978), nel quale i capelli di una donna nuda che scende una scala si trasformano nella lunga coda di un serpente. In corrispondenza dei gradini è esposto l’emblematico Vestito Scala, pensato per donne libere e autoironiche da Ruggeri.
Dal tema e dalla simbologia della scala, che porta ancora al ponte, torno a riflettere sull’amara realtà del visitatore che per raggiungere la mostra ha dovuto contare le rampe in salita.

Un’istituzione come ICA, coraggiosa nella sua missione di promozione dell’arte visiva e lodevole nel recupero di uno spazio industriale, dovrebbe tenere in considerazione che “condivisione e partecipazione, come parole chiave per comprenderne l’attitudine”, non possono escludere coloro che hanno difficoltà motorie. Parlo in prima persona, io che in qualche modo ho raggiunto l’esposizione, ma ci sono moltissime altre persone affamate d’arte che non vedranno Lonely Are All Bridges: persone in sedia a rotelle, infortunati, anziani, madri con un passeggino.
Bellissima la mappa multimediale dell’app Particle, ma non basta a giustificare la dichiarazione della Fondazione, che con questa esposizione rafforzerebbe “il suo ruolo di istituzione inclusiva impegnata a coinvolgere il suo pubblico attraverso strumenti intuitivi e accessibili”.
Auguro ad ICA di poter trovare gli strumenti utili, magari con l’aiuto di uno sponsor ad hoc, magari facendo pagare un biglietto d’ingresso, per rendere fruibile i suoi spazi a tutti. Altrimenti se Lonely Are All Bridges, figuriamoci chi resta bloccato su una sponda del fiume.
Michela Ongaretti