Fotografie che accarezzano i gesti e le relazioni di ogni giorno sono ospiti delle sale cinquecentesche di Palazzo Leoni a Bologna. In occasione della 13ª edizione di Art City apre al pubblico Crosses di Luciana Passaro. L’esposizione si configura come un racconto della quotidianità, un percorso fatto di storie autentiche e intime, frutto di un’accurata selezione dall’archivio della fotografa. Le immagini riflettono le persone e i luoghi che l’artista considera parte integrante del suo mondo. Il titolo, Crosses, evoca l’idea di incroci che si presentano allo spettatore come pagine di un diario visivo. Si tratta di attimi di pura spontaneità: le fotografie vengono catturate senza artifici, apparendo crude e sincere.

L’intento non è quello di celebrare, ma di documentare ciò che Luciana osserva nei suoi cammini usuali, offrendo immagini in cui possiamo riconoscerci. In questo modo, l’opera ci invita a intraprendere un viaggio che attraversa la nostra coscienza e ci interroga sulla bellezza brutale della normalità.
Nelle giornate di preparazione alla mostra che ho curato con entusiasmo ho avuto modo di ascoltare Luciana Passaro, che rispondendo alle domande urgenti davanti al suo lavoro, permette di avvicinarci ad una lettura più corretta delle sue fotografie. Con l’aggiunta del nostro vissuto che rende sempre personale una visione, soprattutto quando è così aperta ai passaggi e alle illuminazioni della vita comune.

Il mondo che rappresenti è vero: respira. Volti vissuti, graffiati, pensierosi, sono parte del tuo quotidiano o è una ricerca che ha bisogno di spazio e tempo?
La realtà che racconto nelle mie fotografie è un intreccio tra quotidianità e ricerca artistica. I volti che catturo sono spesso persone che incontro nella vita di tutti i giorni; gli sguardi, le movenze, l’odore, sono tutti indizi funzionali ad una storia che da sempre vorrei scrivere a penna, ma sono pigra. Immaginare è faticoso, mi porta lontano. Le fotografie sono qui intorno a me, attraversano la strada, incrociano il mio cammino, viaggiamo insieme. Non c’è bisogno di costruzioni o scenari artefatti: tutto accade davanti ai miei occhi, ed è questa spontaneità che cerco di preservare.

Il tuo taglio è quello della fotografia di reportage. Sei partita inizialmente con questo metodo di lavoro o è uno sviluppo che hai raggiunto lavorando nel tempo?
All’istituto d’arte il professore di fotografia ci parlava di D’Alessandro, Scianna, Modotti; era quello il mio immaginario, inizia tutto da lì. Ho imparato a fotografare in maniera intuitiva, aspettando l’istante decisivo. Poi ho trovato le storie, la narrazione visiva mi ha dato modo di scrivere con la luce ciò che con la penna non sono capace di spiegare. Ho fatto anche fotogiornalismo, ma ora quando torno sulle news cerco storie più intime, più profonde. Questo ulteriore approccio, oggi, mi sta portando a una narrazione più lenta, ma molto più consapevole.

Ci sono diversi spostamenti geografici nei tuoi scatti, del tuo paese che è l’Italia, cosa vuoi raccontare?
È un viaggio interiore, soggettivo e collettivo allo stesso tempo. Ogni luogo che fotografo non è solo uno spazio fisico, ma un frammento di tempo, un dialogo tra passato e presente, tra ciò che permane e ciò che si trasforma. Attraverso lo sguardo esploro l’essenza mutevole dei luoghi, cercando di cogliere quella tensione tra identità e alterità. La geografia non è mai neutra: è memoria stratificata, è traccia delle vite che l’hanno attraversata, è teatro silenzioso di storie complesse. Con i miei scatti voglio raccontare questa complessità, suggerendo che ogni spostamento, ogni angolo, ogni luce è un invito a interrogarsi sul senso del nostro abitare, sulla relazione profonda tra me e il mondo in cui vivo. In definitiva, non fotografo luoghi: fotografo domande. E queste domande, credo, appartengono a tutti noi.

Osservando la femminilità nelle tue fotografie, traspare anomala, non stereotipata. Che ruolo assume nel tuo scatto?
Non mi interessa rappresentare la donna secondo canoni tradizionali o idealizzati; ciò che cerco è l’essenza, l’autenticità. La strada e la vita reale mi offrono un’umanità multiforme, fatta di forza, vulnerabilità, contraddizioni. Ognuna è protagonista della propria storia, portando nel suo sguardo o sul suo corpo una verità profonda. Per me la femminilità può diventare una narrazione universale se in ogni scatto riesco a restituire questa irripetibile unicità.
Come vedi l’evoluzione del tuo lavoro in un mondo sempre più orientato verso la creazione di immagini con l’intelligenza artificiale?
Sono certa che se facessi questa domanda a un’IA mi proporrebbe una collaborazione e non una sfida. Scherzi a parte, penso che raccontare l’autenticità e catturare l’essenza di esperienze reali sarà sempre un elemento distintivo. Non temo l’IA, mi spaventa molto di più la mancanza del pensiero critico nella società.

Nella mostra Crosses, il filo conduttore è il mare, in tutte le sue inclinazioni. Che significato ha per te?
Ho sempre raccontato le storie degli altri. Le mie fotografie parlano di fatti, vicende, strade e incroci, da cui viene, appunto, il nome dell’opera. Crosses è la possibilità che mi sono data di interrogarmi spostando l’obiettivo su me stessa. Mi sono ritrovata in una somma di fotografie, tutte narravano il mio vissuto. Ho scelto un percorso espositivo che mi conducesse, quindi, in un luogo libero da incroci, un luogo naturale che rappresentasse il respiro del mondo, per ricollegarmi alla tua prima domanda. Ho scelto il mare perché per me rappresenta la coesistenza, tra separazione e sfida, tra inizio e fine, tra storie di lotta e di perdita, ma anche di profonda speranza.
Bohdan Stupak