Cibo per l’arte contemporanea. Intervista a Rosita Dorigo, food designer

by Michela Ongaretti
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Cibo per l'arte. Marchesi e Manzoni

Cibo che non solo nutre, ma integra e amplifica la fruizione dell’opera d’arte, stimola la convivialità e fa parlare di quello che si vede, che si tocca, che si gusta. Ora che ci manca molto l’aspetto sociale o mondano di un’esposizione, che ci manca scambiare opinioni concretamente di fronte al lavoro artistico, Artscore incontra Rosita Dorigo, food designer interprete del cibo quale strumento di comunicazione parallelo alle parole. Il suo è un approccio nuovo e integrato all’esperienza visiva, attraverso la trasmissione di un messaggio, che si rafforza nel potere evocativo della ricerca sui sapori. Con lei ricordo un’epoca d’oro di grandi eventi per le gallerie milanesi.

 

Cibo per l'arte. Mario Schifano

Cibo per l’arte. Mario Schifano, Pittore che si affaccia, 1979

 

In ambito creativo il cibo è per sua natura sinestetico rispetto ad altre “discipline”: attraverso una corretta ricerca e preparazione riesce a stimolare la curiosità, far sorgere delle domande al primo sguardo, assaggio, incontro con la consistenza e la forma. Il cibo è concetto che metaforizza l’essenza di un evento, enfatizza l’emozionalità ed il ricordo dell’esperienza di cui fa parte.

 

Attraverso la combinazione di diversi elementi è possibile creare qualcosa che trasmetta emozioni stimolando la memoria. Non sapevo se fare l’architetto o realizzare attraverso il food il desiderio di  lasciare un ricordo indelebile . 

 

La prima domanda può suonare scontata ma non lo è affatto. Chi è il food designer? Di cosa si occupa e che background ha alle spalle?

Il food designer è una figura molto particolare. Fondamentalmente ho costruito negli anni una professionalità quasi sconosciuta che operasse con il cibo a 360 gradi, partendo dal marketing, ma con un approccio creativo più forte.

La mia prima missione come marketing manager era quella di far apprezzare, promuovere e vendere il prodotto per una delle prime aziende produttrici di grappe monovitigno, dal 1994 al 1998. Il secondo passaggio è stato comprendere l’efficacia del cibo come strumento di comunicazione, in tutti i suoi aspetti. Dalla costruzione di una ricetta alle caratteristiche dei singoli ingredienti nonchè la presentazione ed il servizio…fino all’abbinamento con il vino , sono anche diventata Sommelier Ais.

 

Cibo per l'arte. Rosita Dorigo tra gli chef

Cibo per l’arte. Rosita Dorigo tra gli chef Massimo Bottura, Blumenthal e Ferran Adrià. Ph. Bob Noto

 

Il cibo può veicolare un messaggio, non soltanto di un prodotto. Sono stata giornalista enogastronomica ed ispettrice di guide, poi ho creato una società di catering tailor-made e sono diventata consulente per cuochi e ristoranti. Non avendo la mia professionalità un nome ben preciso, mi definirono “maitre à manger” che poi è diventato food designer, un termine forse più pragmatico per delineare il ruolo in termini di progettazione concreta. Ad oggi questa figura professionale è meglio definita come “experience creator”. Creo quell’emozionalità fondamentale per il successo di un progetto, dove il cibo entra come focalizzatore di interesse, di convivialità, strumento di realizzazione e di comunicazione.

 

Cibo per l'arte. Gualtiero Marchesi rielabora l'opera di Piero Manzoni

Cibo per l’arte. Gualtiero Marchesi interpreta la merda d’artista di Piero Manzoni

 

Nella tua carriera hai incontrato forti personalità del mondo della cultura enogastronomica, da cui hai appreso molto o scambiato esperienze

Chiave di volta l’incontro con il giornalista Giampiero Rorato, che a suo tempo aveva scritto una particolare collana di libri descrivendo le cucine tradizionali delle regioni d’Italia dando così un forte contributo alla conoscenza e diffusione del patrimonio gastronomico italiano. E’ stato questo illustre personaggio che mi ha portato nel mondo del wine e del food. Con lui ho conosciuto le cucine più rapresentative della cucina sia tradizionale che creativa della fine degli anni ’90.

 

Cibo per l'arte. Enrico Baj

Cibo per l’arte. Enrico Baj, I funerali dell’anarchico Pinelli, 1972, collezione privata. Courtesy Fondazione Marconi

 

In che modo il cibo si può trasformare in uno strumento di comunicazione impattante, nella promozione di un evento, che sia dedicato ad un brand o alla presentazione di una mostra?

Amplifica la potenza del messaggio, in qualunque situazione, creando tutto un servizio attorno, dalla mise en place all’arredamento per convogliare verso la funzione evocativa del cibo: la sua potenza psicologica tocca corde profonde: ricordi, associazioni mentali, affettive, emozionali. E’ il  cosiddetto effetto Madeleine, stimolare la memoria attraverso un gusto. Un uomo adulto con tutte le sue complessità sentendo un sapore può ritornare bambino. Stimola anche la sorpresa, scoprire qualcosa di sé che non si sapeva, o può essere inteso come provocazione nel travestimento della creatività.

 

Cibo per l'arte. Mario Schifano, Bisogna farsi un'ottica

Cibo per l’arte. Mario Schifano, Bisogna farsi un’ottica (Franco Angeli Tano Festa), 1965. Courtesy Fondazione Marconi

 

Come è nato l’incontro tra i galleristi italiani e quella visione sinestetica e rivoluzionaria per l’epoca? Quali amicizie creative hanno segnato le tappe dello sviluppo in tal senso della tua ricerca?

Per diversi eventi di catering collaboravo con alcune aziende vinicole. Mi coinvolsero nella creazione di alimenti per la galleria di Gio Marconi, in occasione di una mostra di Mario Schifano. Mi concentrai su piccoli assaggi giocati sui colori ricorrenti nelle opere, bianco, rosso e nero, perchè il colore è un elemento emozionale molto forte in Schifano.   Creò entusiasmo tra i galleristi in quanto l’evento diventava esperienza attraverso le suggestioni del cibo: creando un richiamo di memoria tra gusto e vista si potenziava l’attenzione sulla pittura esposta, che restava ancor più impressa in un evento che coinvolgesse diversi sensi

Era la fine degli anni novanta e c’era molta voglia di novità, di comunicare in maniera più sensoriale ed emozionale, per raccontare l’arte oltre le parole. Il mio servizio attraverso la condivisione dell’esperienza degustativa, si rivelò utile per creare occasione di fermarsi più a lungo durante il vernissage. Le persone erano facilitate nel creare connessioni sociali e professionali. Fu così che da Marconi conobbi anche Gino Di Maggio, che in seguito richiese i miei servizi per la Fondazione Mudima.

Cibo per l'arte. César in mostra, copertina catalogo Mudima

Cibo per l’Arte. César, La Suite Milanaise, copertina del catalogo di Fondazione Mudima, 1998

 

Cibo per l’arte contemporanea…raccontami di alcuni eventi che ti hanno coinvolto come food designer nella promozione di una mostra, con qualche aneddoto

César

Ricordo bene la mostra di César a Palazzo Reale, il 15 maggio del 1998. La mostra era a cura di Gino di Maggio. L’artista era acclamato, al punto che dei ragazzini chiedevano di autografare delle lattine di bibita. Al termine era esausto e dichiarò di essere affamato. Così mi chiesero di organizzare nell’arco di un’ora un buffet in galleria, non potevano essere cibi complessi visto il tempo a disposizione ma garantì la buona riuscita della serata. L’artista rinfrancato tornò ad essere generoso nel parlare della sua arte. Mi ha anche regalato un suo piccolo lavoro!

Fondazione Mudima, 1998. Cibo per l'arte. César. Copertina catalogo inglese

Cibo per l’arte. César- La suite Milanaise, copertina del catalogo in lingua inglese. Fondazione Mudima, 1998

 

Momò Calascibetta

Un’altra occasione di incontro tra cibo e arte fu sempre alla Fondazione Mudima nel 2002 con il pittore Momò Calascibetta, per la sua personale a cura di Philippe Daverio. Una settimana prima del vernissage incontrai lui e la moglie, decisa a fare un lavoro specifico sulle opere. Nei disegni esposti si vedevano delle donne molto formose, ma al tempo stesso caratterizzate dalla leggerezza: in volo su ali d’uccello, reggevano qualcosa di spumoso che mangiavano con le mani. Calascibetta mi disse: “Io sono siciliano e per me la cosa più golosa, goduriosa e calorica è la cassata”. Volevo quindi ricreare l’atmosfera e il gesto presenti sulle opere. Feci preparare una cassata di tre metri di diametro , un oggetto molto decorativo in bella vista che occupava lo spazio di una sala.

 

Cibo per l'arte. Momo Calascibetta

Cibo per l’Arte. Momo Calascibetta, Zucchmostra del 2017

 

Una poetica in un gesto

Dopo la presentazione quando di solito scema il pubblico, dopo i drinks (non manca mai il cassis con il suo tocco di rosso nei miei catering), l’artista ha brandito una katana giapponese e fatto un taglio deciso sul dolce. 

“E’ il cibo delle mie donne e ciascuno può prenderne un pezzo”. Una signora ha rotto il ghiaccio allungando un dito sulla panna, poi ne ha appoggiato una piccola porzione su un tovagliolo mangiandolo con le mani. Il dolce venne servito allo stesso modo ai partecipanti, così tutti se ne cibarono riproducendo lo stesso gesto dei soggetti dipinti. L’azione era in linea con la poetica di Calascibetta, nell’emozione di essere liberi di esprimere golosità attraverso il corpo, nel gesto infantile e persino trasgressivo nel fare qualcosa fuori luogo nel contesto mondano, pur sentendosi a proprio agio.

Grandi a confronto

Parlando invece di sinergia con i grandi chef ricordo una grande mostra, sempre con Gino Di Maggio, al Casinò di Campione d’Italia. Big dell’alta ristorazione scelsero un’opera di altrettanti big dell’arte del Novecento, da riprodurre nel piatto. Ad esempio Pietro Leemann riprese Schifano, Bernard Fournier Rotella. Rammento bene l’interpretazione della pittura di Baj nel piatto di Claudio Sadler.

 

Cibo per l'arte. Sadler e Baj

Cibo per l’arte. Claudio Sadler interpreta Enrico Baj con il suo Rotolo di sfoglia e pere

 

Un genio dell’alta cucina ha stimolato la tua ricerca, ti ha anche avvicinato all’arte contemporanea essendo lui un collezionista raffinato. Parlo di Gualtiero Marchesi

Gualtiero l’ho conosciuto tramite Piccinardi, il grande critico enogastronomico che mi portò 20 anni fa all’Albereta a Erbusco, il tempio di Marchesi già stellato. Piccinardi mi insegnava ad assaggiare e Marchesi mi chiese un parere su un consommé di pollo. Dissi che era troppo grasso e non aveva sapore equilibrato. Marchesi confermò la mia opinione, e tornò in cucina dove scatenò l’inferno.

Da allora siamo diventati inseparabili, quando veniva a Milano ci vedevamo per conferenze e interviste. Nel frattempo ero sempre più consulente per eventi e cene, su alcuni collaboravo al suo fianco. In quanto testimonial della cucina italiana gli chiesero di creare un piatto “iconico” per Expo 2015 come il celebre risotto con la foglia d’oro, che non poteva rifare ma che desiderava citare. L’arte è sempre stata una sua fonte d’ispirazione, da appassionato collezionista, e i suoi piatti sono visivamente influenzati dall’arte, quella giapponese, il dripping di Pollock, la sua seppia da Canova.

Ebbene, lui che amava la splendida produzione in legno di Maurizio Riva (Riva1920), si domandò se fosse stato possibile idealmente nutrirsi dei trucioli che cadevano durante la lavorazione. Trovava raffinata la loro forma arrotata. Con l’azienda Latini crearono un formato di pasta a forma di truciolo. Questa pasta particolare venne trattata come il suo risotto: mantecata nel burro acidificato con gli stimmi di zafferano. Per riprendere il concetto di “riso” io cercai per Lui un riso particolare “estruso”  ed in più di colore nero , al sapore di pepe , per completare la cromia del piatto ed il richiamo ai classici colori di Marchesi .

 

Cibo per l'arte. Marchesi e Manzoni

Cibo per l’arte. L’altro lato delle cose di Gualtiero Marchesi accanto all’opera di Piero Manzoni

 

Una cifra stilistica

Eravamo sulla stessa lunghezza d’onda circa il principio secondo cui le pietanze fossero ricerca per comunicare una sensazione, nella semplicità ed essenzialità di un concetto, con creatività. Prendi un messaggio esterno e lo traduci in cibo. Mi ha dato la spinta nel credere in questa visione. Per parlare di qualcosa di bello si deve partire da ciò che è buono e sano, che si deve riconoscere in una certa forma ( il design della ricetta), questa è la sua cifra stilistica, come quella relativa ad un artista. Io nasco pensando all’estetica fatta di forma, consistenza, emozionalità, consona al messaggio.

La casa di Marchesi era una quasi un museo: amava  l’arte contemporanea, ma anche oggetti antichi come arpe e carillon. Era stato molto amico di Baj e Manzoni gli regalò due scatolette di “merda” d’artista, una Gualtieri la regalò a me! Lo chef ne ha creata una sua, da leggere come uno scambio d’opinione con l’artista.

Quando e come il cibo è arte, secondo la tua visione?

Quando crea l’effetto di ricreare in un boccone una memoria indelebile e intima, personale, tocca tutti i sensi.

Michela Ongaretti

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