La collezione Ghigi Pagnani è stata la sorpresa di una piccola vacanza ristoratrice che mi ha portato a Ravenna. E’ un luogo unico per gli amanti dell’arte contemporanea, inconsueto rispetto all’aspettativa di chi giunge qui per immergersi nella Storia osservando i mosaici e l’architettura tardoantica e bizantina, o passeggiare per le vie poco affollate, nel ritmo pacato di un genius loci solo in apparenza adagiato sui fasti delle origini.
Ma solo qui potevano trovarsi i capolavori dell’Archivio Collezione Ghigi-Pagnani, formatasi dalla sofisticata e lungimirante passione di due ravennati doc. Un gioiello del Novecento, legato al territorio e allo stesso tempo internazionale. Una tappa e una visione originale nella storia del collezionismo italiano per il suo contenuto e per il suo contenitore.
Una villa galleria del contemporaneo
La progettazione stessa della villa nasce dall’intento di rendere fruibile la collezione di opere pittoriche e di documenti originali, foto e corrispondenza tra collezionisti, artisti e critici, tra il 1955 e il 1965. Mi racconta l’erede di Roberto Pagnani, il nipote che porta il suo stesso nome e che detiene insieme al padre Giorgio, figlio di Roberto e Raffaella Ghigi, ogni segreto circa la raccolta, che l’edificio fu ideato e fatto costruire nel 1955 come casa galleria dall’architetto Luciano Galassi.
La sua originalità è data all’esterno da quel peculiare mix di stile mediterraneo e nord-americano, con le tettoie spioventi che alternano gli embrici, tegole di origine romana che citano la classicità, ai coppi. Fu di modello per le nascenti ville del lido di Marina Romea, che prendeva forma in quegli anni. All’interno è studiata per tener fede alla funzione espositiva, con caratteristici spazi interni aperti e grandi finestre, evitando la presenza di colonne o pilastri che possano interrompere l’osservazione d’insieme della raccolta.
Fu studiata una soluzione strutturale senza invasivi chiodi per appendere i dipinti alle pareti: una rientranza tra soffitto e parete accoglie un sistema di ganci e catene come in uso negli spazi espositivi dell’epoca, necessario per il collezionista colto che amava far ruotare spesso le opere. Si può così offrire al visitatore attenzione di volta in volta su diversi artisti.
Da preziosa raccolta a casa-museo
Durante la mia visita man mano ne scoprivo i particolari, mi rendevo conto di trovarmi dentro ad un esempio unico di casa museo del collezionismo contemporaneo italiano.
Certamente un luogo assai raro per la sua volontà di testimoniare fuori e dentro la contemporaneità, nella specifica concentrazione sul periodo dell’informale, con i due artisti di punta Mattia Moreni e George Mathieu testimoni proprio di quella doppia vocazione internazionale e per il territorio italiano, e romagnolo.
Per la collezione Ghigi-Pagnani è oggi in corso la procedura per il vero e proprio riconoscimento istituzionale di casa museo, che l’erede Roberto sta portando avanti con il precedente lavoro di catalogo della storica dell’arte Federica Nurchis. Me lo racconta con entusiasmo il mio cicerone per un giorno, esperto nel ruolo data la sua dedizione periodica alle visite guidate organizzate con il FAI Giovani, con L’Accademia di Belle Arti di Ravenna ed istituzioni filantropiche come i Lions Dante Alighieri.
La collezione Ghigi-Pagnani. L’Informale a Ravenna
Se come spero vi verrà voglia di raggiungere la villa, troverete la collezione di oltre 200 opere il cui nucleo principale si trova nel grande salotto. Dipinti dei già citati Mathieu e Moreni, alcuni di ampie dimensioni, Marc Tobey, Gorky, Daniel Pommereulle, Emilio Vedova, Sergio Vacchi, Phillip Martin e Bernard Quentin, alcuni lavori di Gianni Dova e un’opera di Imai Toshimitsu del Gruppo Gutai del 1961.
Se è evidente la predilezione per l’Arte Informale, è presente un’importante testimonianza dell’Esistenzialismo Lombardo con Cazzaniga e Vaglieri, e non manca un esempio futurista nei due lavori di Ivo Pannaggi del 1922.
Non posso non citare il Passavivande di Moreni, una vera e propria chicca per i visitatori più attenti. Pure nella sala da pranzo attigua all’ampio salotto ci sono diverse opere, tra cui un dipinto che può essere sollevato per rivelare un’apertura con l’effettiva funzione di passavivande dalla cucina. Il quadro è stato realizzato appositamente su richiesta di Pagnani con quella funzione, che desiderava per questa integrazione tra ambiente e collezione un pezzo rappresentativo. Non ha titolo ma lo si trova nel catalogo generale del grande artista romagnolo.
Arte e Cinema italiani degli anni 60
Una seconda curiosità si trova nella fotografia di un altro capolavoro degli anni sessanta. Parlo del dipinto La sagra della primavera di Gianni Dova, che Michelangelo Antonioni decise di inserire nelle riprese dell’appartamento dei protagonisti de Il Deserto Rosso (1964), ancora oggi a suo agio nell’elegante sala.
Nel film Ravenna assume la connotazione moderna di città industriale, in trasformazione così evidente da impattare sull’uomo e sull’ambiente, secondo la visione personale del cineasta. Era necessario fornire elementi formali quali status symbol: sono espressi dalla moderna essenzialità dell’arredo, soffermandosi anche sull’affaccio non sul centro storico ma sul porto, e attraverso l’arte.
Quale opera amata avrebbe portato con sé un ingegnere milanese che si trasferiva in una nuova città, quale la pittura che rispecchiasse insomma il gusto collezionistico della borghesia del tempo? Fu proprio attingendo alla raccolta di Pagnani che il cineasta scelse La sagra della Primavera, con funzione esemplificativa del contesto culturale d’origine dei protagonisti, perché a Milano all’epoca realmente Dova vendeva bene come spazialista e nuclearista.
In tanto cinema di Antonioni si racconta la contemporaneità attraverso l’arte e l’architettura, spesso dialoganti, esaltando i contrasti tra la disumanizzazione del mondo industrializzato e la costante e convivente ricerca di bellezza, anche nel paesaggio industriale. Proprio nella collezione Pagnani-Ghigi Antonioni trova un repertorio di riferimento del linguaggio pittorico degli anni del nostro boom economico.
Un archivio integrato
Pagnani mi suggerisce l’importanza non soltanto della quadreria, ma della sua integrazione a numerosi documenti preziosi quali lettere, cartoline, comunicazioni tra gli artisti e i collezionisti, tra i quali si instaurava un rapporto di stima e amicizia, una partecipazione di Roberto e Raffaella alle attività di coloro che proteggevano e stimolavano nella ricerca. Documentazione di qualità è formata inoltre dal corpus di foto che scattava lo stesso Roberto, immagini che venivano richieste ed utilizzate dagli artisti stessi per loro pubblicazioni.
Come mi viene con orgoglio spiegato l’’unicum di questa villa museo è che può vantare una vera e propria collezione ragionata: attraverso quadro, con autentica e spesso con dedica, documento e fotografia, puoi ricostruire tutta la storia di un’opera.
Mi fa l’esempio suggestivo del dipinto Ancora Verso un Paesaggio di Mattia Moreni (1961), realizzato nello studio sotto al Moulin Rouge: qui nella collezione Ghigi-Pagnani c’è l’opera e ci sono le lettere intercorse tra il collezionista-mecenate e l’artista, scambi confidenziali di informazioni sulla collocazione e la luce per il dipinto, con precisi riferimenti all’ambiente della villa. Insomma una storia della tracciabilità delle opere attraverso la voce di chi le ha toccate con mano e con cuore.
Un tuffo nella cultura degli anni ’50 e ’60
Foto e corrispondenza evidenziano anche i rapporti intercorsi tra il collezionista colto e altri grandi “colleghi” come Peggy Guggenheim, e il mondo della critica.
Si evince che la figura di Roberto Pagnani viveva l’arte del suo tempo non come un’attività speculativa o un’esibizione di status o ricchezza, ma come una passione viscerale per l’espressione creativa nell’originalità e nella profondità della ricerca che desiderava incoraggiare, infine condividere con altre anime sensibili.
Il nipote sottolinea come ad essere acquistati erano i lavori che rispecchiavano coerenza tra l’idea e la realizzazione, ciò che riteneva rappresentativo di un processo filosofico e materiale, esecutivo. Inoltre le sue scelte provenivano da quella rete di rapporti e di consigli reciproci, con chi in quegli anni stava lasciando un segno indelebile nella cultura del secondo dopoguerra, in Italia e nel mondo.
Pagnani aveva poco più di quarant’anni quando formava il primo nucleo collezionistico. Frequentava le gallerie d’arte più innovative per l’epoca, grazie alle quali trovava e continuava a cercare esempi della pittura più avanguardistica, prediligendo la gestualità dell’espressionismo astratto, l’informale francese ed italiano.
La testimonianza dei documenti “vivi” parla di prestiti e collaborazioni anche con i critici e curatori dell’epoca. La visita è emozionante anche perché i quadri molto conosciuti, spesso chiesti in prestito per esposizioni da critici del calibro di Renato Barilli e Claudio Spadoni. Anche Gio Ponti chiese i per la Biennale di venezia del 1956 il grande quadro Incendio sul Mare di Moreni.
Il cenacolo ravennate
Risale a quei frenetici anni l’inossidabile amicizia che legò Pagnani al critico e storico dell’arte Alberto Martini, ideatore della celebre collana editoriale I Maestri del colore. Martini sicuramente stimolò la conoscenza di artisti viventi ed interessanti, e che introdusse il critico Francesco Arcangeli in quello che si configura fin da subito come un cenacolo per chi gravitava nel mondo artistico degli anni ’50 e ’60.
I documenti presenti a Ravenna testimoniano anche il ruolo di Pagnani come mecenate che promosse gli artisti come Mattia Moreni, Georges Mathieu ed Emilio Vedova, con i quali pure strinse una sincera amicizia: commissionò loro opere e offrì residenze d’artista ante litteram anche per lunghi periodi .
La villa divenne un luogo di incontro e di scambio di idee tra esponenti artistici e letterari, come la scrittrice Elisabeth Mann Borgese e il poeta Raffaele Carrieri. Era una location ispirativa e soprattutto di produzione. Leggo una dedica dietro ad un quadro di Mathieu che ringrazia dell’ospitalità, dipinto proprio nella sala da cui lo ammiriamo oggi. Il pittore esprime gioia per quella che chiama la Renaissance de Ravenna, dove fu chiamato nel 1959 a realizzare un mosaico contemporaneo, con l’intento di ridare parte attiva ad una disciplina della tradizione ormai relegata allo status di artigianato.
Eredità materiale e spirituale
Perchè questo patrimonio si arresta al 1965? Perchè un tragico incidente d’auto tolse a questo mondo Roberto Pagnani, Raffaella Ghigi e Alberto Martini. All’allora ventenne Giorgio spetto l’arduo compito di tenere unita la collezione, salvaguardare le preziose specificità dell’edificio e del suo contenuto. Aiutato dalla moglie è riuscito a portare fino ai nostri giorni un tesoro trasmesso a sua volta al figlio Roberto, che non solo si dedica alla conservazione ma anche alla diffusione del patrimonio nel dialogo tra le arti.
Su di lui, che mi ha aperto generosamente le porte, questa raccolta concentrata sull’informale ha avuto di certo un ruolo influente nel suo crescere pittore. Del suo colore, che va oltre l’imprinting familiare, Artscore avrà modo di immergersi presto.
Michela Ongaretti