Nello studio di Stefano Abbiati si materializzano la memoria e la sua proiezione. Tra questi due intervalli si colloca il presente della sua pittura. Emozioni che corrono sopra e sotto il colore, inteso come esperienza processuale sensibile di diversi passaggi di stratificazione. Attraverso un linguaggio riconoscibile sonda visioni d’oggi e antiche tecniche: graffi, incisioni, vibranti velature sulle quali si integra la pennellata frammentata e fluida, l’acquerello che drammatizza la macchia.
Sono tutte grafie che respirano con la materia a cui si uniscono, così come i soggetti hanno una relazione burrascosa con il contesto da cui emergono.
Subito dopo la visita nello studio pavese ho pensato alla imponderabile valutazione di opera conclusa, alla dialettica inesauribile tra finito e non finito nella figurazione contemporanea. Ammette l’artista: “La cosa più difficile nella vita è lasciarsi andare, abbandonare, accettare che un lavoro possa essere risolto in dieci minuti o accettare che ci sia molta confusione dentro, fino a quando lo rivedi dopo tempo e trovi che tutto sommato abbia equilibrio”.
A ben vedere è finito quel dipinto che ritrae un ragazzo in maglia a righe. Grida forte, più forte accanto a un personaggio misterioso in quanto abbozzato, testimone forse di un tempo anteriore ( o interiore).
Lo sfondo è contesto generativo, è pozione magica che fa emergere da un universo cromatico un soggetto immerso nelle proprie emozioni. Sono portate verso l’esterno, e chi le raccoglie le legge come in una scia di ciò che completamente non comprenderemo mai. Va bene così, la tensione è tutta in quel fiato che senza chiedere di essere guardato, fa ascoltare e sentire. Noi siamo solo i destinatari di un’azione, godiamo della sua eco formale, non siamo fatti della stessa materia di cui sono fatte le sue visioni, ma i nostri giorni sono stati prima o poi popolati da quell’istante. Riconosciamo qualcosa di noi nei personaggi dipinti.
In occasione della mostra del 2013 Il Terzo da Romberg Arte contemporanea Italo Bergantini parlava di “paesaggi emotivi”. Quella serie pittorica giocata sui toni di un assai dinamico grigio non prevedeva soluzione di continuità tra le figure e il magmatico sfondo, anzi pareva di vederle sprofondare, rilasciare vapore contro la superficie di pennellate più corpose, quasi alludendo ad un dialogo temporale, alla comunicazione tra il momento del soggetto e quello della sua resa.
E’ sempre una traversata materica, quella che porta ai nostri occhi l’espressione di un moto interiore, o un reperto di quel che ne resta.
E’ un’energia che si libera nel movimento rivelatore, di cui il pennello si fa letteralmente medium, e per la quale è necessario invocare il colore. Invocare a gran voce, senza dimenticare quei fantasmi inafferrabili nascosti nelle stratificazioni, passare a vitalità più identificabili, ad inquietudini che trasformano il gesto in atto di dichiarazione di esistenza. E’ importante chiamare di nuovo il colore con i suoi eccessi e le sue negazioni per far respirare nuovi palpiti, con una logica della stratificazione più avvolgente: verso il senso dell’opera, il cuore della sua narrazione.
Nel 2020 Abbiati presentava lavori che iniziano sperimentazioni oggi ancora attive, ma ben più mature circa l’integrazione di immagini ed elementi plastici. Riguardano incongruenze materiche e simboliche, superfici porose su cui si deposita una lingua di graffiti astratti quasi casuali, costruite come totem che accolgono camei figurativi. Da quell’affiorare di istantanee sulla realtà immersa in scrittura visiva sono cresciuti differenti filoni di ricerca, lo vedo davanti ai miei occhi nello studio di inizio estate.
“La cosa difficile da portare dentro il lavoro è l’autenticità cioè la sincerità nella trasposizione di ciò che si prova”.
Questa è la confidenza sulla quale poggia la lettura dell’ultimo pezzo di strada dell’artista. Non è facile, perché quel presupposto, quella spinta alla creazione, non si può costruire o pianificare. O ti apri ad uno stato di osservazione e ascolto profondo di quello che l’esistenza ti pone, spogliandosi di tutto il rumore del quotidiano, oppure puoi solo riprodurre ciò che vedi. Intorno al lavoro di Abbiati c’è invece molto silenzio, un silenzio agitato che ad un certo punto, nel fare, evoca voci interiori.
Non si tratta di accedere a verità sconvolgenti quanto di aprire un varco tra il vedere e il sentire.
Il bisogno di coinvolgere una componente emozionale funzionava già nella mostra Il Terzo, solo che veniva presentato in negativo, ovvero nello sprofondare di contenuti nella crisalide della forma, ingaggiando una battaglia visiva tra stratificazioni, trasparenze, abrasioni, incisioni e ritrovamenti figurali. Sono passati dieci anni da quella suggestiva fase e nel frattempo la sperimentazione ha maturato filoni di ricerca indipendenti, figli di quell’aggrovigliarsi dell’immagine alla sua metamorfosi.
Osservare l’ultima fase pittorica è accorgersi di un successivo passo semantico, un avvicinamento al mistero di identità nella frazione di un gesto.
Sono indizi che persino un artista per nulla attratto dalla roboante esibizione da social media trova su riviste o online, e sono il pretesto di una materializzazione altra. Dopo l’”invitante” sparizione del soggetto in un grigio profondo, la pittura mette a fuoco le figure, con i colori accesi di chi la trasformazione ce l’ha dentro, ed è sul punto di farla esplodere, fino al confine della tela.
Di fronte ai tanti dipinti riuniti nello studio di Stefano Abbiati si ha quasi l’impressione di una narrazione continua dove lo sguardo è letteralmente preso per mano.
Attivo l’immaginazione su rappresentazioni che ne custodiscono altre, sono richiamata da una soggettività indicata e al contempo racchiusa, protetta spesso dall’azione di occhi serrati e bocca socchiuse, ma più spesso da mani e braccia, da movimenti di indicano ciò che non si vede perché non è successo, sta per succedere.
Prima della tempesta c’è la forza simbolica della geometria delle dita, identità originaria dell’homo faber, che si confronta con una tradizione iconografica così vasta da risultare a tratti persino inconscia. Passando dalla pittura rupestre al personaggio indicatore del sacro in capolavori rinascimentali, fino all’autonomia simbolica della “parte come tutto” dell’umano in opere di videoarte, Bruce Nauman e Bill Viola e per fare due nomi trattati su artcore.it.
Come già accennato il riferimento all’instabilità, alla possibilità di un cambiamento interno al soggetto è suggerito dal rapporto con il fondo che è ambientazione generativa: in essa la figura si scompone, proponendo una moltiplicazione e simultanea di dettagli da più visioni, oppure la pennellata insinua analogie cromatiche e geometriche.
Non c’è pace, ma nemmeno contrasto, è una componente necessaria eppure non del tutto compresa la realtà per quelle nature umane, quasi sempre ritratti dell’adolescenza, la fase vitale più in trasformazione con la propria identità e il contesto sociale. Con le dovute distanze linguistiche e storiche oso scorgere un nutrimento dal grande racconto cinematografico delle problematicità della crescita, da I 400 Colpi (1959) di François Truffaut a Boyhood (2014) di Richard Linklater.
La proliferazione materica non si è fermata, ma continua attraverso opere liberate dell’inquadratura bidimensionale per indossare una veste scultorea, conservando tracce dell’origine figurativa.
Nello studio vedo esemplari del ciclo l’Ultraterrestre esposte all’ultima mostra al Collegio Cairoli dell’Università degli Studi di Pavia. Il cemento o il gesso scultoreo ingloba un dettaglio disegnato o dipinto, oppure viene intagliato con delle sgorbie inserendo colore nei solchi, riprendendo tecniche del pavimento del Duomo di Siena o dell’ Opus Signinum. Anche qui si scorge la mobilità irrequieta di particolari anatomici o naturali come fotogrammi di esistenza irrequieta, anche qui per emergere la danza multidisciplinare talvolta sposa cromatismi timbrici e sgargianti.
Sono opere di tale delicata concettualità che segnano la cifra stilistica di Abbiati; votata alla richiesta di attenzione per i piccoli segnali di passaggi memoriali permanenti nella struttura del presente. Solo agitando il pensiero nella costruzione, nutrendosi di tecniche della tradizione italiana sempre nuove per un contemporaneo, accettando il fatto che convergono tante influenze non subito decifrabili, incontra però la rappresentazione.
Su questo gioco autoalimentante, “vorace” nel bisogno di sperimentare esiti poetici dalle discipline parzialmente affrontate nel corso di studi, continua la ricerca che fa respirare all’unisono pittura e scultura. Un furor nel quale: “non sono tenuto ad essere preciso ed esatto anzi spesso è bene che mi contraddica, nel senso che scopra risultati che mi sorprendono e che rendo vivo il mio fare”.
Prossima la personale di febbraio, ancora una volta da Romberg Arte Contemporanea, a Latina, preceduta da una tappa pubblica settembrina, con una mostra dedicata agli ex-libris presso la Casa Manzoni di Milano.
Nel frattempo, tralasciando le incisioni per le quali servirebbe una trattazione specifica, nello studio mi stupisce la modalità espressionistica di alcuni acquerelli. Sono esplorati nell’espansione liquida nella grana della carta, macchie di forma e contenuto non completamente domabili. Mi resta l’incognita, che crea desiderio, di vederne i risultati sul grande formato, ma il tempo fuori dalla rappresentazione è sempre troppo veloce.
Michela Ongaretti
Per ulteriori informazioni sull’artista stefanoabbiati.com