The Sea of Hope è un film d’animazione scritto e diretto da Walid Salhab, vincitore di numerosi premi internazionali a soli sei mesi dall’uscita. Il film intende richiamare attenzione sul tema della migrazione: le vicissitudini del protagonista ricordano quelle che rifugiati ed esuli affrontano per sfuggire alla loro problematica realtà.
Chi deve attraversare il mare affidandosi a traghettatori senza scrupoli, investendo i risparmi di una vita per un viaggio più pericoloso di quanto non si speri, senza alcuna norma di sicurezza. Chi conquista la terraferma è un sopravvissuto, perchè sono molti a non farcela, spesso i suoi cari. Di questo altissimo prezzo umano, pagato quotidinamente, se ne parla poco, non abbastanza per il regista di un breve film che non si limita a testimoniare dei fatti. La sua poesia visiva viene dalla fatica interiore, sua e del protagonista. Luci, suoni, sguardi e memoria della perdita, con un’animazione sensibile alle onde, del mare e del ricordo.
Ne parlo spinta dalla curiosità verso una produzione artistica nata dalla collaborazione di Salhab, docente di pratica dei media presso la Queen Margaret University di Edimburgo, con l’animatrice Cristiana Messina.
Dopo la laurea allo IED di Milano in Animazione 2D, nel 2013, l’italiana ha pure intrapreso un viaggio verso la Scozia, alla ricerca della sua realizzazione professionale, con il coraggio che merita attenzione visto il lodevole risultato ottenuto. Durante la nostra conversazione a distanza, mi ha spiegato che il processo di animazione nasce attraverso l’animazione 3D trasformata in animazione artistica tradizionale 2D, disegnata a mano.
Questo articolo nasce anche dalla riflessione universale sul percorso difficoltoso che accomuna tutti coloro che cercano una nuova opportunità, rischiando in prima persona.
In particolare tutti gli artisti che per trovare una loro espressione escono dalla loro condizione originaria, con ogni mezzo possibile, facendosi carico dei rischi che ogni scelta comporta. The Sea of Hope è anche quello di Salhab che, come potete immaginare, non è nato nella “bonnie Scotland”, ma ci è arrivato dopo un percorso geografico e interiore, come i protagonisti del suo film.
Sinossi
The Sea of Hope è ciò che decidono di affrontare un padre e un figlio per sfuggire alla guerra che flagella la propria patria: sarà una navigata tragica che riporterà sulla terraferma pochi sopravvissuti e molte vittime. Il padre non trova più nulla del bambino e piange la sua morte immaginandolo nel sogno di un ultimo abbraccio, che il sole accecante brucia.
Durante un episodio del podcast QMU, Walid Salhab, rilascia un’intervista intima e commovente.
Lo intervista la sua amica e collega Emma Wood, Senior Lecturer in Media and Communication presso la Queen Margaret University di Edimburgo. Il regista pluripremiato condivide le sue prime esperienze come immigrato in fuga dal Libano dilaniato dalla guerra, che ha avuto un forte impatto sulla popolazione, ricordando il suo tempo trascorso da bambino in Iraq e il suo lavoro nel mettere in salvo i soldati feriti dai combattimenti. Una volta raggiunta la sicurezza nel Regno Unito avverte con tristezza il disinteresse verso la sua storia, si accorge che nessuno vuole ascoltarlo. Così decide di nutrire i suoi cortometraggi con l’ esperienza vissuta, per influenzare con le sue immagini il dibattito attuale sui rifugiati e sul loro diritto al rifugio.
Salhab racconta di altri progetti di produzione come The Kelpies e Avaritia, e dichiara il suo intento a dare voce ai migranti esclusi dall’attenzione mediatica, anche per la mancanza di narrazioni originali, che stimolino ulteriore interesse. Nei suoi film la condivisione personale di tante vicende, molto vicine a quelle rappresentate, ha reso commovente la rappresentazione dei migranti, con un’empatia che arriva ad appassionare le giurie di diversi premi internazionali.
The Sea of Hope pluripremiato
Un cinema che desidera apertamente dare voce agli emarginati e ai diseredati, quello ricercato da Sahab, che ha ottenuto e continua a ricevere riconoscimenti nei festival cinematografici di tutto il mondo. Dal Woods Hall Film Festival al Venice Shorts e Amsterdam Short Film Festival, a Parigi, Firenze e Miami Indie Awards, per citare alcune rassegne. Come miglior animazione ha vinto al San Diego Art Film Fest e ai London e New York Movie Awards, ancora ai Stanley e ai 8&Half Film Awards.
Focus sull’animazione artistica
Dalla suggestione per l’animazione di Loving Vincent, dove ogni frame è stato dipinto a olio, per le animazioni di Gianluigi Toccafondo, prende le mosse la tecnica di animazione impiegata da Cristiana Messina. Scenari in movimento come le spighe di grano dei dipinti di Van Gogh, si mescolano ai riferimenti a DJUMA di Michele Bernardi, dove si vedono bene le texture che danno vita ai personaggi. Sono entrambi spunti creativi fondanti nella genesi di un’estetica personale, come mi spiega l’animatrice parlando delle sue scelte disciplinari.
“Negli anni ho cercato di sviluppare una tecnica di animazione artistica sfruttando quella del rotoscoping perché penso abbia enormi potenzialità.
Mi piace molto quando viene impiegata per dare vita alle texture, ai colori e alla linea, ed è un po’ su questi effetti che sto cercando di specializzarmi. Il rotoscoping è una tecnica utilizzata per tracciare il filmato, fotogramma per fotogramma, per produrre un’azione realistica. In origine, gli animatori proiettavano immagini di film live-action fotografati su un pannello di vetro e tracciavano l’immagine su di esso.
Quello che non mi piace in generale dell’animazione 2D è che può risultare fredda e senza molte emozioni. Usando invece la tecnica dell’animazione artistica in rotoscoping è impossibile perdere quell’autenticità di movimento. In più creando segni che si muovono o texture artistiche dai una maggiore forza e vita alla narrazione. Ovviamente bisogna capire la funzione del segno, l’obiettivo dell’animazione stessa.
The Sea of Hope e’ un progetto estremamente emotivo, dove i sentimenti in un certo senso superano la tecnica, per questo le scelte tecniche e stilistiche sono concentrate sull’obiettivo di far immedesimare il pubblico con la storia umana.
Ho portato avanti i due personaggi in rotoscoping perché volevo prendessero un anima, non confondendosi troppo con lo sfondo. Ho creato paesaggi statici con movimenti minimi come se il tempo fosse fermo e soltanto loro fossero quelli vivi all’interno dell’animazione.
Se in pittura tu cerchi di catturare la realtà nel segno, nell’animazione cerchi di liberare la realtà attraverso il segno. “
Quel che rimane dopo la visione di The Sea of Hope è la sensazione che nostra esistenza dipende anche da chi è venuto prima di noi. Quelli che hanno “passato un testimone”, e quelli che non ci sono più.
Personalmente ho ripensato a come le migrazioni, con il loro carico di fatica e dolore, ma anche di ricerca di rinascita, siano state una costante nella Storia umana. Non sono le orme di giganti, ma di donne e uomini come noi a continuare o ricostituire il ciclo della vita. Per questa ragione il titolo dell’articolo comprende l’espressione “viaggio animato”: si riferisce sia al linguaggio del film che alle persone disperse in mare, il cui spirito aleggia nell’immaginazione.
The Sea of hope è una testimonianza poetica di chi ce l’ha fatta ad attraversare un confine naturale. Lo recensisco con la speranza che l’attenzione si rivolga in senso più universale a tutti i limiti creati dalle donne e dagli uomini per altre donne e uomini. L’ingiustizia del giudizio si può sconfiggere con la conoscenza, e se l’arte non è politica, non è ideologia, è con il sentimento e la forza delle immagini che si possono comprendere le azioni. Chiunque sia uscito dai propri limiti geografici o mentali per un obiettivo, sa bene che il suo raggiungimento comporta rischi altissimi. Affrontarli significa avere un raro coraggio.
Michela Ongaretti